Figli di terracotta di Katia Debora Melis
Recensione di Laura Vargiu
“Perché è bugiarda la vita?
La tua mente fragile e offesa
non lo capirà.”
È poesia da leggere e assaporare lentamente, questa di Katia Debora Melis, un lungo e articolato percorso emozionale alla ricerca del senso dell’umano esistere tra le pieghe sbiadite del nostro tempo; orfano di farfalle e ladro di sogni, quest’ultimo ha il respiro affannato di un vecchio quartiere, dove viviamo l’ergastolo dei giorni dal soffitto pulsante di stelle.
Ci si sente davvero al centro di questi versi che si succedono ora brevi e lapidari, ora più lunghi e indugianti sul mondo “che non conosce più equilibrio di stagioni”; e noi, che in esso abbiamo radici, siamo quei figli di terracotta la cui nascita viene mirabilmente fissata in “Genesi”, affascinante ed evocativo incipit della silloge:
“Quando il Sole
ha ingravidato la Terra
è diventato padre di tutti i padri
e la Terra, forte,
si è lasciata plasmare.
Nacquero figli di terracotta.
Siamo noi.”
Niente di più fragile, dunque, niente di più caduco – e, sotto certi aspetti, meno nobile – della natura umana, soggetta di per se stessa a smarrirsi e incrinarsi tra le burrasche della vita.
Attraverso una poetica matura e sapiente, ricca di immagini suggestive, l’autrice ci conduce tra squarci di contemporaneità e note di profondità intimistica. Desolante lo scenario della società attuale: “Regna/ il lamento/ ovunque. […] L’immagine leggera del sorriso/ vola via/ dissolta dalle ombre/ cariche di lacrime/ degli occhi del mondo.”
I colori dominanti non sono quelli luminosi della bella stagione, ma quelli cupi e opachi d’autunno e inverno perenni; si vaga così tra le parole cariche di disorientata sofferenza, sperando in uno spiraglio di primavera forse inesistente o cercando, per via artificiale, un “piccolo germoglio di sereno”. Manca il calore del sole a dipanare quelle ombre pesanti che sono i pensieri, mentre il dolore, come ci confida amaramente una delle liriche più belle, diviene un’immensità in cui non è semplice ritrovare il sorriso affinché si possa dare gioia autentica agli altri senza dover più fingere. Anche il tema della falsità e quello conseguente dell’accorato bisogno di sincerità risultano presenze tutt’altro che marginali nella scrittura della Melis: “Perché è bugiarda la vita?”
E se la vita ci racconta le proprie menzogne, la poesia, tuttavia, non tace le sue verità. Essa è spudorata, non meno scandalosa, e chi da sempre le dà voce, il poeta, è simile a un anonimo soldato, armato soltanto di vecchie e nuove parole e impegnato su innumerevoli fronti. Molte saranno ancora le battaglie e le guerre da combattere. Pertanto, oggi più che mai la poesia, che in fondo parla di quell’io senza tempo né luogo che siamo tutti noi, è chiamata a non rinunciare alla sua schietta spudoratezza, ai suoi voli surreali, alla speranza stessa ch’essa racchiude in sé.
Pubblicata di recente dalla casa editrice calabrese Thoth, la silloge “Figli di terracotta” è veramente splendida: “una scrittura così squisita e profonda”, come scrive Lorenzo Spurio in chiusura della sua attenta e approfondita prefazione all’opera, alla quale accostarci per riflettere sul nostro tempo e la società che siamo, magari imparando a camminare con passi leggeri su questa nostra martoriata terra desiderosa di vivere una nuova stagione, “come se volassimo/ radenti/ sull’acqua.”
Laura Vargiu
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