Marcello Veneziani è laureato in Filosofia all’Università di Bari. Inizia la sua carriera giornalistica nel 1977 collaborando al periodico “Voce del Sud” di Lecce. Nel 1979 entra nella redazione barese del quotidiano “Il Tempo”. Giornalista professionista dal 1982, dopo il praticantato a “Il Giornale d’Italia ” – il quotidiano romano diretto dal deputato democristiano Luigi D’amato – assume nel 1981 la direzione del gruppo editoriale Ciarrapico – Volpe – La Fenice, incarico che mantiene fino al 1987. Intellettuale e pensatore di spicco, Marcello Veneziani scrive a lungo su “Il Giornale”, collabora con “Il Messaggero”, “La Repubblica”, “La Stampa”, “Il Secolo d’Italia”, “L’Espresso”, “Panorama”, “Il Mattino”, “La Nazione”, “Il Resto del Carlino”, “Il Giorno”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E’ stato membro del Consiglio di Amministrazione della Rai durante la XIV Legislatura e membro del Consiglio d’Amministrazione di Cinecittà. Dal 2016 è editorialista de “La Verità” e di “Panorama”. Moltissimi i libri pubblicati sia saggi che romanzi e racconti. Diversi i riconoscimenti avuti.
Francesca Rita Rombolà e Marcello Veneziani dialogano sull’Arte, la Filosofia, la Poesia.
D – Professor Veneziani, per i greci, creatori della filosofia, l’Occidente era la terra del tramonto, ma anche dell’ignoto, del mistero. Che cos’è l’Occidente, ben due decadi oltre il secondo millennio dopo Cristo, e dove va la nostra civiltà occidentale?
R – L’Occidente è stato, per secoli, una categoria temporale prima che spaziale perché indicava il tempo della modernità. Oggi, con l’ascesa tecnologica di India e Cina e del SudEst asiatico, ha perso anche questo primato. E’ rimasta terra del tramonto, anche in senso demografico, ad eccezione del Sud America. Potremmo dire che l’Occidente finisce sconfinando: la globalizzazione è, in realtà, l’occidentalizzazione del mondo, l’americanizzazione del pianeta. Ma la penuria di idee, di cultura, di civiltà, di natalità disegna un destino crepuscolare.
D – Chi ha letto, meditato e recitato l’Iliade e l’Odissea di Omero, i due grandi poemi dell’antichità mediterranea, ha, secondo lei, una visione del mondo abbastanza forte e temprata per far fronte alla mancanza di valori e di ideali del nostro tempo e per resistere agli assalti dell’effimero della società dei consumi?
R – Non credo che basti la lettura de l’Iliade e de l’Odissea e, più in generale, l’amore per la cultura classica per fronteggiare la crisi di valori, ideali e principi. Ma non è possibile affrontare quella crisi prescindendo da quell’eredità, quella visione del mondo. Diciamo che è condizione necessaria ma non sufficiente. Si tratta di ripensare la triplice radice e tradizione da cui deriviamo: greca, latina e cristiana. Ma anche di pensare il futuro attraverso una nuova idea di riuscita e nuovi, arditi pensieri.
D – Il nichilismo in breve, “l’ospite inquietante che si è insinuato nelle pieghe nascoste dell’Europa” come lo definiva Nietzsche oltre un secolo e mezzo fa.
R – Il nichilismo è il trionfo del caso sul destino, del caos sull’ordine e sulla misura, l’assenza di uno scopo e di una prospettiva, l’avvento di culture della distruzione e della morte, quel “versare il nulla nel vuoto”. Ma è anche la supremazia dei mezzi sugli scopi, la tecnica e l’economia sulla cultura e sul sacro. Il suo epicentro è l’Europa, ma il nichilismo è virale e tende a farsi mondiale. Gli dei che ho evocato nel mio libro “Nostalgia degli dei” sono la frontiera per arginare il nichilismo, il richiamo agli intramontabili mentre noi tramontiamo e il mondo cade nella notte del Nihil.
D – La tecnica, la tecné dei pensatori antichi, domina oggi l’intero pianeta. Le sue forme più vistose sono tutto ciò che la tecnologia più avanzata offre all’uomo, cioè internet, i sistemi di guerra missilistici e i satelliti artificiali, le fibre ottiche e la robotica. Il guardare positivamente o negativamente a tutto quello che essa ha prodotto e che produce a ritmi incessanti è una questione di tatto, di sensibilità, di scaltrezza, di cinismo, di formazione interiore, di condizionamenti vari oppure no?
R – Non si deve demonizzare la tecnica. Si tratta piuttosto di recuperare una visione armoniosa e gerarchica, mettendo ogni cosa al suo giusto posto. Lo sviluppo della tecnica consente risultati finora impensati, e ci apre forme di conoscenza e di vita imparagonabili col passato. L’alienazione sorge quando i mezzi diventano scopi, quando la tecnica si costituisce in autonomia e decide la sorte e la direzione del mondo e delle persone. Per governare la tecnica occorre dotarsi di forti contrappesi come la cultura, il senso estetico, sociale, religioso, l’humanitas.
D – Se la filosofia, il pensiero critico, il logos non fossero mai nati la storia umana avrebbe preso fin dall’inizio un’altro corso? Perché comunque molti imperi, regni, civiltà del passato non hanno avuto una compagine intellettuale speculativa alla loro nascita e nel loro sviluppo.
R – Ha poco senso interrogarsi sulla patafisica, vagliare una storia eventuale. E poi la filosofia, la storia, il pensiero critico, il logos sono parte costitutiva del pensiero umano; la loro perdita non è un incidente di percorso, comporta la fine dell’umanità, la nascita, al suo posto, di una postumanità o di imperialismi antiumani.
D – In una catastrofe planetaria di livello apocalittico l’Arte riuscirebbe a sopravvivere se almeno un solo uomo cammina ancora e alza gli occhi al cielo?
R – Non lo so ma lo spero. Anzi spero che non saremo mai messi alla prova, non ci ridurremo mai a quel punto. Comunque, se la bellezza salverà il mondo, l’Arte è sicuramente un antidoto alla catastrofe. Non il solo e non sicuramente efficace e vincente, ma è un antidoto essenziale.
D – E’ davvero sceso l’oblìo sul poetare? La Poesia è morta o vive, magari quasi del tutto misconosciuta nella notte profonda?
R – La Poesia ha una strana sorte. Si sono persi i vertici del poetare, si è persa la visione poetica del mondo ma l’esercizio della poesia si è diffuso enormemente, anche se a volte si confonde con la pulsione intimistica, autoreferenziale dell’umanità. Ci sono milioni di poeti che non leggono poesia ma la scrivono. Una specie di narcisismo dell’anima, di fragilità e di ipersensibilità che richiede attenzione e soccorso. E’ il segno di un bisogno naturale e spirituale radicato, anche se le forme assunte spesso sono inadeguate, puerili, sostanzialmente impoetiche.
Francesca Rita Rombolà
Marcello Veneziani
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