“Scrivere è il mio Locus amoenus”. Gianmaria Contro, fumettista e scrittore

29 Febbraio 2020

Gianmaria Contro nasce nel 1968 a Milano, dove vive e lavora. Nei primi anni Novanta del secolo scorso approda alla redazione de “La rivisteria”, glorioso magazine ormai da lungo tempo estinto, dove impara i rudimenti del lavoro editoriale. Nel 1998 confeziona per Feltrinelli “Il mercante del terrore – mostri e maestri dell’horror” volume che, in un certo senso, segna il suo destino professionale: quello di esperto di materie fantastiche e horror. Dopo un rapido passaggio nella web economy, in qualità di content manager, approda, nel 2002, alla Sergio Bonelli Editore dove, un pò per caso un pò per fortuna, diviene “fumettaro” a tempo pieno. Redattore, assistente del curatore e infine curatore egli stesso (attualmente delle testate “Le Storie” e “Morgan Lost”) coltiva una predilezione speciale per la scrittura in tutte le sue forme, espressioni e variabili contenutistiche. Collabora attivamente alla stesura dei testi degli Almanacchi (poi Magazine) bonelliani e realizza editoriali, redazionali, prefazioni, postfazioni e mini – saggi tematici ogni volta che gli si presenta l’occasione per farlo, al punto che nel 2015 sforna la sua prima sceneggiatura fumettistica. Nel frattempo, ha preso parte a vari progetti editoriali extra – comics (quali i mensili “HorrorMania”, “ThrillerMania” e “HorrorTime”) e si è prestato anche a collaborazioni “mordi e fuggi” con realtà come Condé Nast, Mondadori, Gorgoyle Books, Master, Addictions o la Repubblica. Nel 2018 torna all’antica passione saggistica con il volume “Zombie Walk – L’irresistibile ascesa di un mostro senza qualità” pubblicato da Odoya. Ha forse una mezza dozzina di altri lavori nel cassetto che spera di realizzare nel prossimo futuro.

Francesca Rita Rombolà conversa in modo intenso e profondo con Gianmaria Contro.

D – Gianmaria Contro, il tuo approdo come fumettista alla Sergio Bonelli Editore.

R – Si potrebbe dire che sono “entrato dalla finestra”, in modo non certo rocambolesco ma, tutto sommato, abbastanza fortuito – secondo uno schema peraltro molto diffuso nei mestieri dell’editoria… Per scrivere “Il mercato del terrore” (più o meno un secolo fa, credo fosse il 1987) ebbi modo di intervistare Sergio Bonelli e Mauro Marcheselli che all’epoca – in qualità rispettivamente di editore e curatore – amministravano l’immenso successo che il Dylan Dog di Tiziano Sclavi incontrava nelle edicole di tutta Italia. Fu – e giuro che non lo dico per facile piaggeria – un colloquio piacevole e informale da cui mi congedai con l’impressione che sarebbe stato altrettanto piacevole poterlo riprendere e sviluppare. L’occasione si presentò di lì a qualche mese: dopo la pubblicazione del mio libro fui invitato – dall’amico Andrea Colombo, che allora gestiva uno dei pochissimi siti web di “cultura horror” – a prendere parte a un piccolo evento ospitato da un teatro di Legnano e lì, adagiato su una poltroncina, ritrovai Marcheselli. Fu lui il primo a darmi fiducia e a introdurmi come collaboratore esterno alla gloriosa macchina degli “Almanacchi della Paura” bonelliani… E poi, come suol dirsi, da cosa nasce cosa. Ad ogni modo, dopo più di venti anni da quella serata, faccio ancora fatica a definirmi un “fumettista”… Sì, è pur vero che dedico la maggior parte del mio tempo quotidiano a mettere insieme i pezzi di questi straordinari segni – su – carta, ma ho nel mio codice genetico la tendenza a sentirmi sempre un outsider. In fondo mi piace gongolarmi nell’idea che perfino Gianluigi Bonelli si considerava “un romanziere prestato al fumetto e mai più restituito”. Io di romanzi non ne ho mai scritti, ma chi lo sa? Magari in futuro…

D – Il fumetto può essere considerato, a tuo parere, un genere letterario o una forma di arte?

R – Probabilmente basterebbe sfogliare le tavole di un’opera magistrale come il “Little Nemo in Slumberland” di Winsor McCay – ai primordi della storia fumettistica occidentale – per fare piazza pulita di ogni dubbio in materia. Oppure si potrebbe ricordare la celeberrima dichiarazione di Hugo Pratt il quale pensava al proprio lavoro come a una vera e propria “letteratura disegnata”… E questo senza neppure considerare lo scenario contemporaneo che vede le terze pagine dei quotidiani, gli inserti culturali, le trasmissioni televisive e una miriade di siti web sbracciarsi in esercizi di critica fumettistica che farebbero invidia all’estetica adorniana… Del resto, considerando le ricorrenti crisi che il concetto di “arte” ha incontrato anche solo nel corso del Novecento, direi che la si potrebbe definire come “tutto ciò che è ritenuto tale da una comunità sufficientemente ampia di persone” il che – per quanto riguarda il fumetto – è già una risposta. E’ un criterio convenzionalistico, arbitrario e approssimativo? Certo, ma temo che sia l’unico disponibile, al momento. Se si fanno quattro passi in un qualsiasi museo contemporaneo si noterà, ad esempio, come la produzione figurativa non sia più – almeno da un secolo, peraltro – vincolata ad alcun canone estetico uniforme condiviso o pienamente esplicitabile. Non si può far finta di non vedere come l’arte viva prevalentemente sul confine tra logiche di mercato (domanda – offerta, compravendita, valore d’investimento) e logiche di provocazione intellettuale – emozionale (talvolta, duole dirlo, non del tutto distinguibili da mere strategie di “marketing”)… Questo per dire, banalmente, che la faccenda è piuttosto delicata e complicata. Semplificando, riportiamo la domanda sul cinema che, generalmente, viene considerato “una forma d’arte” senza che la cosa susciti obiezioni. Eric Rohmer, Quentin Tarantino e Marino Girolami sono tutti e tre artisti nello stesso senso? Qualcuno risponderebbe, senza esitazione, di sì, qualcun altro si vergognerebbe anche solo per averlo pensato… Che dire, dunque, del fumetto? Più o meno la stessa cosa: certamente può essere “arte”, ma al prezzo di portarsi dietro tutti i problemi che questa parola comporta. Forse, se ci spostiamo sul concetto di “genere”, la cosa diventa un pò meno ingovernabile… O no? La definizione classica di genere prevede che esso si dia come coesistenza tra strumenti formali e variabili contenutistiche (l’esametro omerico e le gesta eroiche, per capirci, fanno l’Epica), ma si tratta di un criterio evidentemente troppo restrittivo e rigido. Al punto che oggi – nel parlare quotidiano – il genere è ormai diventato più che altro “la sfumatura tematica dominante” della narrazione (horror, giallo, fantascienza), un dato che si riverbera fortemente sui comics. Basti pensare a un oggetto bizzarro come il “genere super – eroistico”. C’è chi cerca di sottrarsi all’apparente evanescenza di questo criterio asserendo che il fumetto non è un genere bensì un “linguaggio”, ma ho l’impressione che anche questo escamotage non reggerebbe del tutto a una analisi più accurata (il linguaggio di Topolino, quello di Charles Schultz, quello di Robert Crumb o di Tex obbediscono alle stesse regole formali?)… Se la faccio tanto lunga – in verità – è perché trovo divertente muovermi su questo terreno sdrucciolevole. Alla fine le nuvole parlanti piantano le proprie radici al crocevia tra figurazione grafica, narrazione cine – sequenziale, letteratura, drammaturgia… Sono belle o brutte, superficiali o profonde, emozionanti o deprimenti, “artistiche” o “triviali” a seconda di come questi elementi si sviluppano e integrano tra loro, ma soprattutto in funzione di come si gioca la partita ai dadi tra chi “fa” e chi “legge”. Senza conoscere lo sfondo storico – culturale su cui collocarla, il dialogo tra l’artista e il suo pubblico, qualcuno avrebbe mai detto che la merda – in – scatola di Manzoni fosse arte?

D – Cosa si pensa quando si crea un fumetto: al successo o meno che potrà avere, a come verrà accolto dai lettori o semplicemente a realizzarlo bene e basta?

R – Si pensa a tutti questi aspetti, senza che – nella maggior parte dei casi – sia possibile separarli. In verità la questione ha molti punti di contatto con la precedente: chi concepisce se stesso come “artista” nel senso romantico del termine, ovvero come un soggetto che, in assoluta libertà, esprime un contenuto altrettanto assoluto, si preoccuperà solo di dare una forma compiuta e autosufficiente alla propria opera. Ma è un approccio che, al di fuori di un certo spirito da bohémien – il quale pure, fortunatamente, sopravvive – non sono in molti a potersi permettere nell’ambito di una produzione sociale, come quella bonelliana, la voglia di “creare qualcosa di bello e unico” è sacrosanta, e per questo viene tutelata e incoraggiata, ma deve cercare il modo di convivere con la fisionomia del personaggio protagonista, la sua storia editoriale, il rapporto di lungo periodo che ha instaurato con i propri lettori. “Realizzare bene” una storia è, in definitiva, la priorità, sempre e comunque, ma questo principio trova – deve trovare – il giusto compromesso con la necessità di una pubblicazione mensile. In fondo, l’idea è quella di garantire al lettore/lettrice un’avventura che sappia essere avvincente, misteriosa, emozionante ma anche giungere nel punto vendita al momento giusto rispettando, nel contempo, criteri formali che – benchè siano perlo più invisibili per chi legge l’opera – nascono da un preciso addestramento professionale. Alle origini dell’editoria di massa, i Dame Novel, i Penny Dreadful e i Feuilleton, così come i gialli o la fantascienza da edicola nel nostro paese, hanno realizzato una simile sintesi (quella che – mutatis mutandis – si crea oggi nelle serie televisive), e non bisogna dimenticare che la “pubblicazione seriale” ha fornito una culla ideale all’opera di Dostoevskij, Dickens, Lovecraft o Asimov…

D – C’è poesia, o una certa poetica, nel fumetto?

R – Se non ricordo male – ma davvero sto procedendo “a memoria” – nel “Parmenide” il vecchio filosofo che da il titolo al dialogo incalza Socrate chiedendogli se, per caso, anche le pozzanghere fangose, gli oggetti più umili e insignificanti e le varie materie abominevoli del nostro mondo esistano come copie di un’idea, di un modello iperuranico perfetto… E’ una provocazione che può valere come spunto: forse ogni cosa, anche il fango delle pozzanghere, contiene qualcosa di più elevato – ovvero contiene “poesia”, se preferiamo – nella misura in cui la si ritrae e la si vede attraverso uno “sguardo poetico”, giusto? Ma, anche senza andare così lontano, la risposta è indubbiamente positiva: il fumetto può essere una forma di narrazione potente, evocativa e profonda quanto qualsiasi altra cosa. Se per “poesia” si intende, dunque, la capacità di sollecitare stati d’animo o pensieri non immediatamente presenti alla percezione, di intrattenere – e imprigionare, in un certo senso – la mente di chi legge in un universo di possibilità e significati che può afferrare solo parzialmente… Ebbene tutto questo è proprio dell’esperienza del raccontare, a prescindere dal mezzo che si sceglie per portarla a compimento.

D – E la scrittura in generale? Quanto conta nella tua vita artistica e non?

R – Ad un primo livello, la scrittura è stata il principale veicolo della mia crescita professionale e, di conseguenza, tendo a considerarla in termini, diciamo così, pragmatici. La vedo soprattutto come un complesso e affascinante “dispositivo sociale”, e la uso consapevolmente per trasmettere contenuti attraverso le più varie strategie: informare, persuadere, divertire, stuzzicare la curiosità del lettore, suggerirgli prospettive e interpretazioni, percorsi da intraprendere in autonomia… E’ probabilmente un atteggiamento figlio del mio ruolo bonelliano, quello di – se mi passate il termine un pò pretenzioso – divulgatore di temi e storie della cultura popolare (e non). Ma è anche una posizione che sbircia con aria un pò inquieta l’attuale struttura della comunicazione pubblica: a fronte di un mercato editoriale sempre meno remunerativo per gli autori, si assiste a una proliferazione di volumi che sommergono gli scaffali delle librerie; l’universo del web si dichiara affamato di fantomatici “contenuti di qualità” che, però, non è disposto a pagare e, mentre le scuole di scrittura creativa – che sorgono qua e là come funghi – continuano a sfornare gostwriter, copywriter e “storyteller aziendali” sottopagati, l’analfabetismo funzionale assedia un pubblico di lettori forti che è e rimane esiguo… Trovare una collocazione alla scrittura in sé – come un atto creativo “puro” – in un contesto così ricco di contraddizioni e zone d’ombra non è una passeggiata, non per chi – letteralmente – di questo vive. Certo, tutto cambia se si passa a un livello più intimo e interiore… come credo si sia notato, ho un certo pudore nei confronti della parola “arte”; se proprio devo, preferisco rifugiarmi in espressioni come “vita intellettuale” o “esperienza culturale” – che suonano bene ma sono decisamente meno compromettenti. Detto questo, nella scrittura trovo lo spazio fondamentale e insostituibile del mio personalissimo appagamento. Chi vuole vederci una forma di sublimazione pulsionale freudiana (un termine più rispettabile per “masturbazione”) è libero di farlo. Scrivere è la mia stanza dei giochi, il mio Locus amoenus, lo spazio notturno – e – separato in cui “ritrovo le energie” (espressione dal sapore pubblicitario, lo riconosco) per affrontare la natura labirintica del mondo in cui viviamo. Scrivere è, in un certo senso, un atto di onnipotenza, un teatro nel quale siamo drammaturghi, registi, costumisti e attori contemporaneamente e nel quale diamo forma – con il cesello e la mazza da fabbro – a un’architettura linguistica, espressiva e concettuale interamente nostra; chi vi rinuncerebbe? Ogni volta che, nel tempo rosicchiato qua e e là agli impegni quotidiani, incontro un autore che non conoscevo, un fenomeno di attualità o di storia, gli elementi di un dibattito “in fieri”, sento naturalmente la necessità di organizzare le riflessioni che ne sorgono. La scrittura è il laboratorio in cui questa riorganizzazione ha luogo, è un processo attraverso cui un momento potenzialmente solipsistico si trasforma in qualcosa che può esistere oltre l’immediato, qualcosa che può essere raccontato.

Francesca Rita Rombolà

Gianmaria Contro

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