Wallace Stevens (1879 – 1955), poeta americano, sensibile quanto colto e di una profondità schiva e spesso oscura, si colloca quale figura singolare e tuttavia specifica nella letteratura americana del Novecento, assurgendo a voce di spicco di elevato livello universale.
Nella sua prima silloge poetica, pubblicata nel 1923, dal titolo “Harmonium”, vi è già, visibilmente delineata, la sua poetica, sorta di ideale di una poesia sublime intesa come riscatto per un mondo in cui ogni agire umano è privo di idealità e di idealismo e ogni fede (religiosa, politica, sociale, etica ecc. ecc. ), insieme a ogni trascendenza unita a un marcato o latente senso del Divino, è morta o morente.
In un mondo dallo scenario ambiguo, rischiarato, poco o nulla, da una sinistra luminosità larvale o di tenebra la Poesia assurge allora, per Wallace Stevens, a un piano quasi assoluto di realtà e di verità superiori. Essa, infatti, è l’unica a poter trascendere la realtà tutta, anche la più infima, per sostituirvisi quale guida, cammino, luce. Nella seconda silloge poetica dal titolo “Ideas of Order” questo concetto avrà un ampliamento significativo e quasi assoluto e Wollace Stevens teorizza, da ciò, una “parola poetica” artefice del mondo, cioè in grado di creare, di costruire, di formare il mondo e l’uomo che lo abita.: “She was the single artificer of the world/in which she sang … “.
Con una tendenza particolare all’astrazione, la poesia delle sue prime raccolte è colma di qualità evocative e musicali del verso come, ad esempio, le iterazioni, le annominazioni, le paranomasie, e pregna di una magica intensità di espressioni le quali riuniscono in sé un’ampia gamma di significati ma, soprattutto, mostrano un equilibrio speciale fra immagini – simbolo e il pensiero che le sottende. Mentre, nelle raccolte più tarde, l’ardore concettuale prevarrà sul sentimento libero con una certa forza consumando e trasfigurando il verso stesso. Wallace Stevens è, in un certo qual senso, il poeta della luce; colui che, operando nell’ombra e scavando l’ombra, nel crepuscolo di un inizio secolo, va dolorosamente e coraggiosamente in direzione della luce.
Una luce, sempre e ogni volta lontana e ancora irraggiungibile, ma che è, in fondo, solare e verbale a un tempo poiché Wallace Stevens, e il poeta – vate in generale, lenisce il suo tormento e la sua ansia di riappropriazione libera, edenica della terra, riconoscendo alla poesia – “canto scaturito dal sangue” – un mandato o, forse meglio, una missione di salvezza tutta terrena e umana. “Sunday Morning” fa parte del libro d’esordio “Harmonium” ed è, sicuramente, quella parte dove l’originaria poetica di Wallace Stevens ha forma più compiuta; eccone la poesia II:
“Perché concedere i suoi tesori ai morti?
Che divinità è se può venire solo
in ombre silenziose oppure in sogno?
Possibile che nel tepore del sole,
nei frutti aspri e nelle splendenti ali verdi,
o ogni balsamo e bellezza terrena non trovi
cose da amare come l’idea del cielo?
E’ in lei che deve vivere il Divino:
passioni dalla pioggia e sensazioni e umori dalle nevicate,
solitarie afflizioni, o indomabili
entusiasmi al fiorire del bosco,
folate di emozioni sulle umide strade
nelle notti d’autunno; ogni gioia, ogni pena,
che ricordi il ramo d’estate e il ramo d’inverno.
Queste sono le qualità destinate alla sua anima”.
Francesca Rita Rombolà
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