“E’ come se mancasse un orizzonte da raggiungere, un territorio da attraversare con una meta”. Un profondo e intenso dialogo con Sergio Bellucci

30 Giugno 2021

Sergio Bellucci (Roma, 21 luglio 1957) è uno scrittore e un giornalista. E’ specialista nei temi dell’innovazione tecnologica legata alla comunicazione. Negli anni Novanta del secolo scorso ha progettato il corso di perfezionamento post – universitario “Tecniche e Linguaggi Multimediali” per il For. Com. (Formazione per la comunicazione) Concorso Interuniversitario Trasnazionale dell’Università La Sapienza di Roma. Ha scritto editoriali e articoli su quotidiani “L’Unità”, “Il manifesto”, “Liberazione”, su riviste e periodici tra cui “Gulliver”, “L’Ernesto”, “Anima Mundi” e altri. Molti i saggi pubblicati fra cui “La comunicazione di massa nella metropoli globale” (editrice Mrc, Roma, 1996); “Programmare l’imprevedibile” vol. XXII, 2020; “Digitale, Robotica, Intelligenza artificiale. L’accelerazione pandemica della trasformazione del lavoro”, 2021. Diverse le sue monografie fra le quali “L’industria dei sensi”, 2018 e il freschissimo di stampa “Al – Work. La digitalizzazione del lavoro”, Jaka Book, 2021. Sergio Bellucci collabora, dal 2018, con la testata giornalistica online “Moondo” diretta da Gianpaolo Sodano.

Francesca Rita Rombolà e Sergio Bellucci dialogano intensamente e profondamente sulla scrittura, la comunicazione, l’Intelligenza artificiale, la Poesia.

D – Sergio Bellucci scrittore, giornalista, saggista, progettista nel campo della comunicazione multimediale, dove sta andando la società globale o dove porterà con i suoi sviluppi e le sue implicazioni tecnologiche?

R – Possiamo dire che ormai emerge, a livello di massa, la consapevolezza del passaggio storico che stiamo attraversando. Solo che la profondità di tale passaggio, lo spessore delle trasformazioni in atto, la qualità che tali cambiamenti possono indurre, nei loro vari e differenti esiti, non sono compresi. Un pò come accadde con la Beat Generation … pochi compresero che l’emersione di quel manipolo di intellettuali avesse la capacità duplice di cogliere i fermenti che si muovevano già nei corpi sociali e, al contempo, produrre una sorta di “collasso d’onda” capace di generare l’emersione di ciò che era, al momento, ancora sommerso. Ecco, il digitale, soprattutto qui nel nostro paese, che rappresenta un unicum in termini di ritardo tra i paesi avanzati, non è stato ancora compreso nella sua totale capacità ubiqua di ridisegnare il fare umano portandolo “oltre” i confini dell’agire tradizionale, “oltre” le forme relazionali delle persone, “oltre” le modalità di produzione del valore, “oltre” le forme del lavoro che avevamo conosciuto nella storia millenaria dell’uomo, “oltre” le stesse forme dell’umano sia sotto la forma delle sue strutture cognitive sia, soprattutto, nella capacità di intervenire sugli stessi codici del DNA che rappresentano un “salto” qualitativo nella storia evolutiva delle specie viventi. Nel nostro paese molti si soffermano sulla superficie degli eventi: quella dell’attenzione a fenomeni temporali e marginali come le attività “social” delle persone o di marginali effetti sul lavoro come le attività nuove abilitate dalle piattaforme nella precarizzazione di servizi o dei successi di questo o quell’influencer. Pochissimi si interrogano su ciò che sta abilitando la grande trasformazione digitale, un cambiamento che in altri paesi, come negli USA, ha indotto a generare anche neologismi come il concetto di “distruption”.

D – “Al – Work. La digitalizzazione del lavoro” è il suo ultimo libro appena uscito. Ne vuoi parlare?

R – Come accennavo poc’anzi, quello che serve è comprendere le tendenze “strutturali” dei cambiamenti per non esserne travolti e poterli indirizzare. Purtroppo, spesso ci soffermiamo sui messaggi che i mass media e la rete ci suggeriscono e restiamo come abbagliati, stupiti e incapaci di mettere a critica, di comprendere il senso profondo delle trasformazioni. “Al – Work” è un lavoro di “aggiornamento”. Nel 2005 uscì un mio libro dal titolo “E – Work”. In quel libro affrontavo, con alcuni anni di anticipo, l’avvento dei processi di trasformazione del lavoro che è rappresentato dai concetti dell’industria 4. 0. Teorizzavo l’avvento di una fase finale del modello di organizzazione del lavoro che aveva caratterizzato il ‘900: il Taylorismo. La produzione di un oggetto non era più compito di una persona, ma le operazioni necessarie a produrre una cosa erano “spezzettate” in tante “mansioni” semplificate che venivano coordinate da un processo ingegneristico e controllate in modo ferreo nella loro esecuzione. L’avvento del digitale stava introducendo quello che chiamai il Taylorismo Digitale, un processo di parcellizzazione, cooperazione e controllo del fare produttivo che iniziava a trasferirsi dalle attività lavorative alla stessa vita sociale. In quel libro accennavo anche all’avvento di quello che chiamai il Lavoro Implicito, quello che in quegli anni iniziavamo a fare “lavorando gratuitamente” per i social, garantendo la nascita della principale produzione di valore economico di questi anni. In questo “Al – Work” faccio un aggiornamento delle tendenze che avevo descritto nel 2005, ne approfondisco le condizioni di trasformazione e degli impatti sociali ma annuncio anche le conseguenze dell’impatto dell’Intelligenza artificiale sul mondo del lavoro. Un impatto di cui non esiste la consapevolezza reale delle conseguenze nella produzione e negli assetti sociali. Il nostro paese, inoltre, sembra quello meno preparato tra i paesi avanzati. Esiste un ritardo nelle classi dirigenti delle imprese, delle parti sociali e della politica. Anche l’annuncio del PNRR, con il suo portato di ingenti risorse, sembra essere vissuto più come l’arrivo di un flusso di risorse da utilizzare per “tornare a come eravamo” che a progettare un futuro che, se non pensato e reso “socialmente compatibile”, può rappresentare un salto nel buio.

D – Molto è cambiato in questi ultimi venti anni, cioè da quando è iniziato il Ventunesimo secolo, in ogni campo dello scibile umano; la tecnologia fruibile da un numero sempre più elevato di persone ha portato una “rivoluzione” nella società. Lei la definisce e la vede come una rivoluzione vera e propria?

R – La fase della storia che stiamo vivendo sarà segnata nei libri di storia come una sorta di spartiacque. Possiamo dire che non esistono ancora le parole per descrivere la qualità di ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. La parola “rivoluzione” è spesso utilizzata in molti contesti differenti e viene percepita in maniera diversa a seconda di questi. In politica la parola “rivoluzione” descrive il passaggio del potere da una classe sociale ad un’altra. La sostituzione di un gruppo al potere con un altro, ad esempio, è descritta come un “golpe”, “una presa del potere”, un “colpo di stato”, ma non rappresenta una “rivoluzione”. Rivoluzionare una cultura significa far perdere centralità a dei concetti per affermarne dei nuovi. Personalmente credo che la fase che stiamo vivendo sia una “transizione”, cioè il passaggio da una formazione economica ad un’altra. Le transizioni non avvengono spesso nella storia, e quando avvengono si aprono lunghi periodi di instabilità sociale, politica e lotte economiche profonde. Spesso, nella storia, una transizione è accompagnata da guerre e conflitti che si protraggono per decenni e anche secoli. Ecco, lo scenario di questa transizione ( che nulla ha a che vedere con le transizioni di cui parlano i governi nei loro piani di spesa … ) è addirittura molto più drastico e dirompente di altre transizioni che l’umanità ha attraversato. Per fare un esempio “recente”, l’ultima transizione che l’umanità ha vissuto è stata quella del passaggio dalle società agricole alle società industriali. Quel passaggio ha una data simbolica di inizio: il 14 luglio 1789! Caddero teste di regnanti e si aprirono decenni di lotte, rivoluzioni, guerre che ebbero il primo punto di equilibrio nel mitico anno delle rivoluzioni, il 1848. Ancora oggi, a più di un secolo e mezzo di distanza, ne abbiamo un ricordo nella frase che indica una situazione di caos: è successo un ‘ 48! Perché dico che la transizione che stiamo vivendo è più “radicale” di quella aperta con la Rivoluzione Francese? Beh, potrei cavarmela con un elenco semplificato di ciò che era alla base di quella e ciò che sta determinando quella odierna. A quel tempo possiamo dire che ci fossero queste premesse: l’Enciclopedia di D. Diderot e J.  B. D’Alembert (1751), i processi dell’accumulazione primaria dell’esproprio delle terre comuni e il vapore delle macchine di Boulton – Watta (1769) come forza motrice per le pulegge delle prime macchine tessili. Quelle “semplici” innovazioni determineranno la valanga del mondo industriale che ha ridisegnato il rapporto e la natura e ha aperto a processi allora neanche ipotizzabili. Oggi non esiste ambito nel quale non si accumulino delle conoscenze o delle capacità che ridisegnano ciò che conoscevamo o pensavamo come possibile solo pochi mesi prima. Stiamo ridisegnando il fare umano e la sua conoscenza a velocità che l’umanità non riesce a socializzare. Vuole un esempio? Da oltre un secolo sappiamo che l’Universo è sia relativistico sia quantomeccanico. Quante persone sono socializzate ad una conoscenza della realtà che rompe con schemi millenari e apre a concezioni dell’uomo e dell’Universo in cui vive inedite e dirompenti situazioni? Ne vuole un altro? Stiamo intervenendo sui codici genetici della vita modificando la storia dell’evoluzione sul pianeta terra. Quanti sono consapevoli che quando acquistano un prodotto modificato geneticamente stanno sostenendo un tale processo? E, infine, ma solo per chiudere con esempi che occuperebbero pagine e pagine, oggi sappiamo che la nostra struttura cognitiva – il modo con cui comprendiamo il mondo intorno a noi – dipende dalla forma plastica del nostro cervello che, a sua volta, dipende dalla quantità e qualità degli imput sensoriali che lo raggiungono. La stessa “logica” con la quale i messaggi ci arrivano per la decodifica costruisce “la base” della nostra forma e capacità di comprensione delle cose e del mondo. Per millenni siamo stati immersi in strutture di comunicazione (prima orali e poi scritte) che sono “unilineari e unidimensionali” e possono essere comprese solo come se “svolgessimo” un filo. Abbiamo chiamato questa struttura “testo”. La digitalizzazione ha reso concreto il sogno della avanguardia del ‘ 63: rompere la linearità del testo attraverso l’intervento del lettore. Oggi una quantità enorme di scambio comunicazionale è proprio “ipertestuale” e ha rotto gli argini comunicativi millenari della vecchia umanità, producendo una nuova forma comunicativa che abilita forme nuove di relazione e spinge alla formazione di nuove strutture cognitive. Insomma, i cambiamenti, le rivoluzioni sono tante e innumerevoli e aprono a scenari inediti. Per rendersene conto è sufficiente applicare le vecchie forme etiche o morali di soli cinquanta anni or sono (quelle prodotte da secoli e secoli di lenta evoluzione sociale) non solo nelle relazioni umane di oggi ma soprattutto alle possibilità del fare o non fare. Come avremmo trattato cento anni or sono cose quali la creazione di vita artificiale o l’intervento per la creazione di organi attraverso impianti in animali o un utero in affitto o l’invasione della nostra privacy quotidiana di multinazionali che fanno soldi sui nostri comportamenti?

D – Arte e tecnologia possono (o potranno) essere un ottimo binomio, a dispetto delle molte voci che non le vedono bene insieme? E quali i loro possibili linguaggi in futuro?

R – L’avvento delle tecnologie digitali mi sembra che abbia prodotto un territorio nuovo, almeno sotto alcuni aspetti. In maniera sintetica, possiamo dire che oggi abbiamo strumenti di produzione di “contenuti”, di “messaggi” che consentono a milioni di persone di fare e creare a costi assolutamente marginali. Quando iniziai a lavorare io nelle televisioni negli anni ‘ 80, una telecamera (solo la telecamera) costava l’equivalente di un bell’appartamento. Oggi un’intera filiera di strumenti per creare un video, un film, una foto sono racchiusi in uno smartphone, che può essere nelle nostre mani a poche decine di euro al mese. La potenza e la flessibilità delle tecnologie digitali ha depositato nei corpi sociali una quantità di tecnologia capace di far esprimere milioni, centinaia di milioni di persone. Al contempo, manca un’adeguata formazione, una preparazione per esprimere le proprie emozioni, le proprie idee. E’ come se mancasse un orizzonte da raggiungere, un territorio da attraversare con una meta. Una volta superati i limiti degli strumenti ci ritroveremo incapaci di utilizzarli per andare oltre. Siamo ancora fermi sulla stessa soglia di cui abbiamo abbattuto la porta.

D – Comunicare nell’era di Internet per Sergio Bellucci.

R – L’idea della comunicazione nell’era digitale è esplosa. Intendiamoci, per millenni l’idea di comunicazione è stata legata all’atto volontario di voler trasferire un concetto, una idea, una informazione ad un altro. Essa poteva assumere la forma di un semplice gesto di vita quotidiana o di una colta e ragionata espressione sulla nostra idea del mondo, della vita. Ciò che restava unico era il gesto: voglio comunicare qualcosa di me o su di me, o del mondo, all’altro da me. Platone, nel Fedro, descrive il senso di smarrimento che la produzione della tecnologia della scrittura produceva nella classe “intellettuale” del tempo. In quelle pagine è racchiuso lo smarrimento del filosofo che rifiuta che un’idea possa essere “congelata” in uno scritto. Uno scritto, infatti, alle molteplici domande di uno studioso, avrebbe offerto sempre la stessa immutata risposta. Un filosofo non avrebbe mai potuto consegnare una propria idea ad un testo “morto”. Sappiamo tutti com’è andata a finire la storia umana del pensiero: la tecnologia della parola scritta ha consentito un accumulo progressivo di conoscenza intorno alla quale le idee hanno attraversato i millenni, si sono evolute, hanno prodotto avanzamenti senza precedenti. Questo senza accennare alla stessa forma del religioso che, investita dalla potenza del testo scritto, si è trasformata nelle forme monoteiste che oggi prevalgono in larga parte del pianeta. Il salto di oggi, però, è molto più significativo. La nostra stessa vita, in ogni istante, è produttrice di flussi di comunicazione che sono sottoposti ad un accumulo permanente e progressivo di dati che, a loro volta, attraverso meccanismi di apprendimento automatico, determinano proliferazioni dei nostri comportamenti che, nella sostanza, sono flussi di comunicazione verso l’altro. Flussi in grado di descriverci talmente bene che, spesso, le analisi di tali comunicazioni dicono di noi molto di più di quanto noi stessi si sappia su di noi.

D – Un algoritmo ha scritto una poesia focalizzando alcuni versi di Eugenio Montale. Il risultato è stato sbalorditivo: una poesia quasi migliore dell’originale. Cosa pensa al riguardo?

R – Le tecnologie del Machine Learning non fanno altro che scandagliare le strutture con le quali l’umano o l’ambiente generano routine e verificano le risposte che queste routine producono. Abbiamo bisogno di parole nuove per definire la realtà nuova in cui viviamo. Quella che chiamiamo “intelligenza” ha un rapporto diretto con la “generazione” di intuizioni che producono “salti” in avanti. Le “intelligenze artificiali” riproducono schemi o ne scovano generando connessioni che non erano ricercate. Ciò che manca alle routine informatiche è la capacità di emozionarsi e che, a mio avviso, è la connessione diretta con la capacità di generare il “nuovo”. La Poesia non è, e non potrà mai essere, puro esercizio di stile. Infatti, esistono tante persone che sanno scrivere ma non sanno cosa scrivere. Mentre può esistere un analfabeta che produca uno squarcio sul reale in grado di svelarne l’anima segreta e indicarci un territorio nuovo. Ecco, ad oggi l’Intelligenza artificiale può essere un perfetto conoscitore di regole e routine; produrre anche articolate forme espressive, ma necessita di schemi sui quali “appoggiare” la sua produzione, una produzione che rimarrà senza uno scopo autonomo che, invece, resta pulsione interna (o interiore) del poeta. La Poesia è una struttura sistemica “bottom up”: emerge dall’animo umano e ricerca la connessione non sul piano razionale. Le regalo una mia poesia degli anni ‘ 80 che da il nome ad un piccolo vecchio volume “Dialoghi e Ombre”:

Un giorno chiesi alla mia ombra:

Quanti anni hai?

Quanti anni hai

Per trascinarti

Stanca

Dietro al mio corpo?

Lei non disse nulla:

Al primo calar del sole

Svanì in un oceano d’ombre.

Francesca Rita Rombolà

Sergio Bellucci

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