Anna Maria Farabbi è nata a Perugia il 22 luglio 1959, ivi risiede e lavora. Poetessa, narratrice, saggista scrive le sue poesie sia in dialetto che in italiano. Nel 1995 vince il prestigioso Premio Montale per la sezione inediti. E’ stata redattrice della rivista letteraria “Lo spartivento”. Ha collaborato con vari giornali e riviste con traduzioni, recensioni, lavori di critica letteraria tra cui “Legendaria” e la rivista africana “Sister Namibia” come corrispondente italiana. Ha scritto per “Poesia”, “Atelier”, “La clessidra”, “Il vascello di carta”, “Versodove”, “Poetrywave”, “Yale italian poetry”, “Pagine”, “Famiglia Cristiana”, “Letture”. Collabora con la Fondazione Bianciardi – Il Ghibellino. Fra le sue numerose pubblicazioni di poesia, di saggistica, di prosa: “Abse”, “La tela di Penelope”, “La magnifica bestia”, “la casa degli scemi”, “Un paio di calze di seta”, “Maria Cammara”, “Caro diario azzurro”, “Il canto dell’altalena, l’oscillazione della figura tra il gioco e il mito”.
Francesca Rita Rombolà dialoga con la poetessa Annamaria Farabbi.
D – Anna Maria Farabbi ha nel suo curriculum vitae letterario un numero consistente di libri pubblicati sia di poesia come di narrativa e di saggistica, ma quando ha scritto e pubblicato il suo primo libro in assoluto e come è avvenuto?
R – La mia prima opera è stata in poesia: “Firma con una gettata d’inchiostro sulla parete”, Scheiwiller, 1996, in sette poeti del Premio Montale. Vincendo il prestigioso premio ottenni la pubblicazione dalla storica casa editrice. Ricordo l’eccezionale giuria: Maria Luisa Spaziani – presidente Giorgio Bassani, Giovanni Macchia, Goffredo Petrassi, Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Marco Forti, Vanni Scheiwiller.
D – Lei è principalmente una poetessa, a suo parere è sempre stato difficile e perché (lo è ancora) essere poeta, in primis, e donna, consapevole di questo ruolo o missione, nella società di ogni epoca storica?
R – La Poesia non è per me scelta. E’ natura coltivata. La vita in sé è difficile. Vivere la Poesia esige concentrazione, attenzione, studio permanente, essenzialità e parsimonia nella parola, tensione e accordatura, lavoro nel plesso della propria clessidra interiore. Tutto questo più che difficile è al limite della vivibilità. Fin qui non credo sia questione di genere. Vivere, tuttavia, la poesia femmina in modo organico, ovunque, comunque, nella necessità di andare, oltrepassare, attraversare, non riconoscere confini e canoni, è chiaro che urta con una società androcentrica.
D – Il Mito in sé, ma soprattutto in poesia, per Anna Maria Farabbi.
R – La mia ultima opera, “Il canto dell’altalena, l’oscillazione della figura tra il gioco e il mito” , coedito quest’anno da Piedimosca e Al3vie, risponde diffusamente alla sua domanda. Il Mito è alla radice del Canto. Non potevo non entrare ancora una volta nella sua cruna, con un pensiero eretico, erotico, femminista.
D – Cosa percepisce o cosa sente in profondità quando scrive una poesia o un verso soltanto?
R – Lo sprofondo.
D – La Poesia è (o può divenire) ascolto dell’Essere inteso come presenza – essenza di un qualcosa di inaudito che è possibile si manifesti anche come senso del Divino?
R – Sì.
D – La dimensione, diciamo così, del silenzio (se dimensione si può definire) nel poetare è importante? E quanto è importante?
R – Nell’opera “Il canto dell’altalena” ho ripreso questa cellula nominale e l’ho studiata. Il silenzio non esiste. Esiste il tacere. Esiste il vuoto che costituisce il ritmo, la sospensione che alterna il segno (scrittorio o vocale). Ritirarsi nel tacere è, prima che pensare, prima di studiare, ascoltare. accedere nell’infinita sonorità e semantica del Creato. E’ imparare ad imparare, uscire da sé per incontrare l’oltre. E’ un tempo fondamentale e sorgivo.
Francesca Rita Rombolà
Anna Maria Farabbi
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