Federico Salsano, trenta anni di fotografia cinematografica essenzialmente per lavori commerciali in Italia e negli Stati Uniti d’America: pubblicità, videoclip musicali e quant’altro. Fiore all’occhiello la fotografia di un documentario candidato all’Oskar nel 2004 dal titolo “The Wheather Underground”. Poi dal 2016 si accorge che non gli basta più realizzare immagini sulle idee di un’altra persona, e vuole mettere in pratica le sue. Realizza così il suo film “Il metodo Kempinsky” nel 2019 che partecipa a vari festival, ottiene dei riconoscimenti e la distribuzione online. Federico Salsano insegna Direzione della Fotografia alla Naba, Nuova Accademia di Belle Arti, a Milano, e continua nel suo percorso con nuove idee sempre in ambito narrativo/sperimentale.
Francesca Rita Rombolà e Federico Salsano conversano di arti e di poesia.
D – Federico Salsano vorrei che parlassimo subito del tuo ultimo film “Il metodo Kempinsky”.
R – Nel corso di un viaggio realmente intrapreso, traversando a vela l’oceano Atlantico fino a Cuba, ho voluto raccontare il confronto di un uomo con i suoi pensieri, ricordi, paure di fronte all’immensità di un paesaggio sì meraviglioso ma anche sempre uguale a sé stesso, cercando di elevare il mio orizzonte ad una visione onirica e forse disincantata del significato dell’esistenza. Nel suo viaggio il protagonista, interpretato da uno straordinario Lele Panzeri, regista e creativo pubblicitario al suo esordio cinematografico come attore all’età di sessantasei anni, finisce per scontrarsi con i suoi stessi incubi e non capire più da che parte deve andare e perché è in viaggio: forse alla ricerca dei suoi sogni adolescenziali, forse destinato ad una consapevolezza che lo spaventa e che spaventa noi tutti. Per fare ciò ho cercato di mantenere un contrasto di toni, dallo spunto leggero alla drammaticità più buia, con un significato forse nichilista che ho voluto cercare scavando anche con sofferenza nel mio animo più profondo. Il perché abbia deciso di dare questo taglio nella scrittura del film sarebbe da chiedere al mio psicanalista, ma non so se sarei ancora su quella lunghezza d’onda. Il risultato è un personalissimo melange che si colloca tra una narrazione cinematografica “tradizionale” e videoarte, uno stare a cavallo tra due linguaggi che dà forza e originalità al racconto ma che, al tempo stesso, richiede allo spettatore uno sforzo maggiore rispetto all’intrattenimento puro più o meno denso di significato. Insomma non è un film da vedere a fine giornata di lavoro dopo cena, se lo si vuole apprezzare. Anche il fatto che solo festival coraggiosi, particolarmente attenti ad uno spirito sperimentale e puramente indipendente, abbiano premiato il film è la testimonianza di questa essenza.
D – Dove si può vedere il tuo film?
R – Il primo lockdown del marzo 2020 ha impedito l’uscita in sala e sto lavorando sul recupero della stessa che però in questa fase ad imbuto, cioè di film prodotti e che per uscire hanno aspettato la riapertura delle sale creando un traffico distributivo mai così intenso, non è facile. Il mio sogno sarebbe quello di coinvolgere il navigatore Giovanni Soldini, con il quale sono in contatto e che conosce bene i meandri del pensiero solitario in mezzo al mare, per una presentazione in grande stile prossimamente. Nel frattempo è uscito su varie piattaforme ed in particolare su Indiecinema.it di cui fa parte, diciamo, della collezione permanente. Questo il link: www.indiecinema.it/il-metodo-Kempinsky.
D – La realtà culturale oggi promuove, incentiva, stimola gli artisti nei loro percorsi di realizzazione spesso molto difficili?
R – Trovo che la realtà culturale non debba né incentivare né stimolare gli artisti. Gli artisti producono per necessità, per quella che è la realtà culturale del loro tempo. E’, quindi, un processo inverso. Gli artisti producono anche nelle condizioni peggiori, se hanno urgenza di farlo. L’artista puro poi produce essenzialmente per sé stesso e noi lo incontriamo per caso, per motivi fortuiti, non perché ne abbiamo sentito parlare da qualche cassa di risonanza mediatica. Che poi l’Arte sia anche un mestiere e che produca un reddito anche cospicuo per un artista è un altro discorso, ma qui i rivoli del discorso riferiti alle singole arti si fanno molteplici, forse infiniti.
D – Quanto contano le idee e quanto la tecnica in un processo artistico quale quello cinematografico, ad esempio, sono connesse ed intercambiabili oppure si integrano vicendevolmente ma separatamente?
R – Il mio è un curriculum di direttore della fotografia. Scelsi questa strada appunto perché amo la possibilità di produrre arte attraverso la tecnica, ma la tua domanda non ha una risposta univoca. E’ il bello del cinema: i confini tra i ruoli spesso non sono netti, soprattutto tra cinematographer e regista. Tutto sta nella competenza tecnica di quest’ultimo, che può essere profonda o quasi nulla, e nel rapporto di collaborazione reciproca che si instaura. E’ spesso una questione di sintonia a pelle che si tramuta in fiducia. Anche in tutte le altre figure chiave del processo vale a dire: scenografia, costumi, montaggio, idee e tecnica si fondono in quella che si potrebbe definire un “raffinato artigianato professionale”.
D – La Poesia per te.
R – La Poesia … Personalmente trovo che la Poesia sia un lusso che raramente abbiamo l’accortezza di regalarci. Eppure è gratis, anzi è lei che arricchisce noi. Accorgersi della poesia che ci circonda è lavoro quotidiano al quale dovremmo prestare più attenzione. Il cinema è poesia: le arti sono poesia. Potrebbe essere poesia qualunque cosa decidiamo che lo sia a patto di avere sempre uno spirito aperto e accogliente agli stimoli che riceviamo ogni secondo. Recentemente ho realizzato un cortometraggio incentrato sulla figura di Emily Dickinson: lei è il perfetto esempio di come la Poesia possa sgorgare dal nulla, dall’assenza, dallo stupore puro.
Francesca Rita Rombolà
Federico Salsano
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