Elena Soprano esordisce come scrittrice nel 1994 col romanzo “La Maschera” (Edizioni Archinto, 1994, e poi Baldini e Castoldi, 1995) premio Lerici Opera Prima tradotto in Francia, Germania, Spagna, Grecia, Olanda. Da quel momento in poi per grandi e per piccini. Ha collaborato a testi scritti per il terzo programma radiofonico della Rai e per la Radio Svizzera Italiana Canale Due. Col suo nome anagrafico ha curato per anni le recensioni di narrativa per l’infanzia sul Domenicale de Il Sole 24 Ore, e le cura ora su Liber. Ha curato i Progetti Lettura di alcune istituzioni scolastiche e promosso la narrativa per bambini e ragazzi con laboratori nelle biblioteche civiche. Fra i suoi libri pubblicati si ricordano anche: “Alice del pavimento”, romanzo, La Tartaruga Edizioni, 1999; “La signora ermellino”, romanzo, 2007, Edizioni Effigie(nuova edizione nel 2016) ; “Tutti i chiodi del Signor P.”, romanzo per ragazzi, Hablò Edizioni, 2005. Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie delle edizioni ES, su periodici e quotidiani tra cui Il Giornale, Il Piccolo, La Repubblica delle donne, Gulliver, Nuovi Argomenti, Tutte Storie etc.. Sue fiabe e suoi fumetti sono stati pubblicati da Erasmo, Lupo Alberto, Walt Disney Italia, Alba etc.
Francesca Rita Rombolà dialoga con Elena Soprano.
D – L’esordio di Elena Soprano con il romanzo “La Maschera” tradotto in diversi paesi, cosa ha significato, o rappresentato, per l’autrice?
R – E’ stato un esordio shock. Io ho sempre scritto e letto molto, ma non osavo varcare la soglia della narrativa. Svolgevo un’attività di pubblicista con case editrici e periodici. Un avvenimento traumatico nella mia vita, il suicidio di un amico, mi portò ad una forma di rielaborazione del lutto anche scritta dove, senza esserne del tutto consapevole, raccontavo uno spaccato di vita metropolitano caustico e dissacrante. Lo mandai ad Oreste del Buono, in Bompiani. Lì Antonio D’Orrico “in uscita” lo prese, lo lesse. E mi chiamò nel cuore della notte. Mi disse che lo avrebbe proposto a Rosellina Archinto. Il libro fu un piccolo caso. Piacque subito a Marco Ferreri che venne a trovarmi, ci fu un contratto con Mikado, ma per la prematura scomparsa del regista non si realizzò. Fu ricomprato poi da Baldini e Castoldi, all’epoca di Alessandro Dalai, ed ebbe cinque traduzioni. E’ un libro particolare (scritto a mano con una penna rubata a Placido Domingo) con una forza espressiva che forse si riesce ad avere solo all’esordio e che ancora colpisce. Tanto è vero che i diritti sono stati ricomprati da GaEditore che lo ripubblicherà nel 2022. E’ un libro che mi ha fatto vivere per la prima volta la magia della scrittura, l’entrare in una dimensione dove l’autore è davvero il portavoce di qualcosa di più grande. Per scrivere bene è ovvio che ci vuole mestiere, io avevo alle spalle una decina di anni di attività, di sinergia, di tecnica. Ma la tecnica serve proprio per essere trascesa. Per permettere quella connessione dove forma e contenuto nascono da una profonda intuizione che non ha a che fare con la razionalità.
D – Lei ha scritto anche per bambini e per ragazzi, quale la differenza, secondo lei, con la scrittura per adulti?
R – Nel mio caso, è una questione di sottile equilibrio. Ogni volta che scrivo per adulti, forse per reazione creativa, ho bisogno poi di ritornare al linguaggio simbolico della fiaba, a un immaginario di archetipi. Per me questi due tipi di scrittura sono come i vasi comunicanti (del resto amo molto la scrittura della Byatt che alterna i due generi, anche se i suoi racconti fiabeschi non sono rivolti ai bambini). Mi arriva un incipit, come mi arrivasse l’estremità di un gomitolo, e solo procedendo nel lavoro scopro di cosa si tratta, che forma, che colore ha, qual è il suo disegno. A mente “fredda”, nella revisione dei testi, la scrittura per bambini richiede un senso in più: quello dell’incanto. Tutta la scrittura richiede, pretende, cura (maniacale direi), attenzione, precisione. Il lettore deve ritrovarsi fra le mani, che sia un libro o un tablet, qualcosa che cattura. E catturare la mente, l’immaginario dei bambini è più complesso. Il linguaggio deve essere conciso, essenziale e, allo stesso tempo, evocativo. Quando scrivo per bambini mi rendo conto che spesso penso per immagini. La traduzione in parola è un passaggio alchemico.
D – I suoi progetti letterari nell’immediato e per il futuro.
R – Sono in uscita tre libri a cui sto lavorando: “White as snow” per Voglino Editore, un romanzo di formazione sul kaos adolescenziale, “La ragazza Melampo” per le Edizioni Effigie, in questo caso si tratta di racconti sulla singletudine al femminile; e poi “La Maschera” per GaEditore che, tra l’altro, sta ripubblicando l’opera di Brunella Gasperini. Uscirà a giorni in selfpubblishing la nuova storia di Natale “La notte del Bau”. La prima cosa nuova che realizzerò sarà un nuovo audiobook. Con la collaborazione del jazzista Sandro Cerino ho pubblicato in audible due racconti sonori per bambini, “Il Signor Coccinella” e “Il quarto porcellino”, che permettono un approccio di musica classica anche ai piccoli lettori. Il nuovo titolo sarà “Il cuscino del re”, una fiaba che anni fa fu pubblicata con le splendide illustrazioni di Roberta Angaramo. Poi sì, ho una nuova storia, un tema che mi “ronza” intorno da tempo sull’invidia inconsapevole che trasforma le persone in ombre di se stesse.
D – La cultura, e l’Arte in particolare, ne ha risentito, o ne risente, della crisi globale di valori che vive il mondo in questo momento?
R – In primis, con la crisi legata al Covid, gli artisti in genere sono stati i più penalizzati. Il mondo dell’Arte, con i concerti, le rappresentazioni teatrali, il cinema, è stato il più svantaggiato per le risorse economiche venute a mancare. Questo ha consentito lo sviluppo di un nuovo ambiente, il digitale, con, da un lato, una saturazione a livello dei social quali “contenitori d’arte”, dall’altro la nascita di realtà interessanti come la piattaforma Codalunga di Nico Vascellari. Tuttavia, come in tutti i periodi di instabilità, l’Arte e la cultura hanno avuto un nuovo “magma” da osservare. Siamo in un periodo non solo violento ma in cui la violenza sembra essere diventata più che un atto un linguaggio. La paura per un futuro incerto, la crisi ambientale che impatta su quella lavorativa, l’incessante comunicazione dei mass media su scenari negativi non contribuiscono a creare un mood sociale sereno. Condivido comunque quanto ha detto Gianni Dessì, pittore – scultore, nel ciclo di conferenze Discorsi della crisi: “… Lo stato di crisi non è uno stato di eccezione in arte ma verrebbe da dire che ne è la condizione necessaria”. L’Arte, in fondo, ha sempre il compito di raccontare e fornire strumenti di interpretazione del reale, attingendo dai disequilibri della realtà stessa elementi e linguaggi di indagine.
D – La Poesia e i poeti che la producono, la scrivono sono ancora dei fari nel mare in tempesta di una società dove sembra non vi sia più spazio per essi?
R – Il successo di Livia Chandra Candiani mi fa dire di sì. Le sue parole nutrite di silenzio, i suoi reading seguitissimi in cui racconta, declina l’amore e la sofferenza del nostro essere uomini alla ricerca costante di senso sono accolti da un bisogno di assoluto che nient’altro sembra poter soddisfare. La Poesia è fuoco vivo, è forse l’ultima barricata contro un’omologazione all’indifferenza, alla anestizzazione dei sentimenti che proliferano nella nostra epoca. E’ quel “farmi sentire umano”, eliminando il senso di solitudine di cui scriveva il grande David Forster Wallace.
Francesca Rita Rombolà
Elena Soprano
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