“Scienza ritegno” (Mario Vallone Editore, ottobre 2021) è la seconda fatica letteraria di Antonio Pilato. Inconsueta e particolare nella struttura narrativa quanto strana e intrigante nella vicenda raccontata da un io narrante inquieto e distopico, si presenta al lettore attento con tutto il fascino e la novità della letteratura weird.
Ogni capitolo di “Scienza ritegno” è contrassegnato da una lettera dell’alfabeto greco antico espressa nella sua naturale successione alfabetica, di modo ché si va dalla prima all’ultima lettera, cioè dall’Alfa all’Omega, includendo il percorso del protagonista e di tutto quel che ruota intorno a lui.
Tutto ha inizio e si concentra abilmente da un libro che il protagonista scova nella biblioteca della città di Alma (anima in latino), dove vive. Un libro senza autore e con un titolo inusuale: “Kopèo vittima di Phòbos. L’osservazione deturpata della paura”, e con una copertina blu elettrico, che si fa notare in mezzo a tutti gli altri libri, muove i fili del dramma che prende forma via via che il lettore si immerge nel mondo di “Scienza ritegno”. Accadono cose ai limiti della realtà comunemente intesa, tanto da far pensare a Zacarias Carrasco, l’io narrante, che esso è stregato o maledetto.
Ben scritto e solido nella struttura lessicale, “Scienza ritegno” di Antonio Pilato sembra essere un racconto surreale sulle due parti importantissime che compongono l’interiorità dell’uomo o, se si preferisce, la sua anima: il conscio e l’inconscio, identificati spesso dal pensiero filosofico come l’ombra e la luce. L’uno non esclude l’altro. Le due parti di un tutto che si chiama “uomo”, che si compenetrano a vicenda e delle quali non si può farne a meno se si vuole vivere in armonia con se stessi e con gli altri.
Nel profondo dell’essere umano si cela un vero e proprio universo, talvolta una lotta costante e continua in cui la coscienza e la sua parte oscura cercano di sopraffarsi e di prevalere a discapito della componente che nel tempo si mostra più debole e finisce dunque per cedere. Spesso il prodotto che scaturisce dall’immaginazione si trasforma in arte, ma quanto si è dovuto camminare e lavorare per riuscire ad elaborare il meglio dalle tenebre più fitte e giungere a vedere anche le tenebre più fitte nella luce più luminosa.
Un’inquietudine latente, o di fondo, attraversa ogni pagina. Un brivido incerto percorre la spina dorsale e allerta i sensi. Quel che è visibile è illusione e semplice rappresentazione, il vero risiede oltre, in dimensioni precluse allo sguardo e all’udito; allora la percezione si affina, si captano presenze anche non umane, e nasce così la paura. Paura che può assumere molte forme e le più svariate sfumature dando vita ad impulsi e sentimenti del tutto sconosciuti perfino alla scienza più avanzata.
Il finale di “Scienza ritegno” non è scontato e non è banale, specialmente con il suo “epilogo” e “oltre l’epilogo” inimmaginabili, che forse se non danno una soluzione al problema sembrano almeno indicare una via e lasciare un messaggio a chi sappia intuire e cogliere l’importanza di quella cosa che si chiama “anima” e che è prerogativa esclusiva dell’uomo. E soltanto dell’uomo. Notevole la copertina in cui il bianco e il nero, i due colori base del mondo intero, si alternano in una sintesi reciproca e complementare, culminante nel cane in posizione seduta in qualità di “guardiano della soglia” al di là della quale sono il mistero e la morte a regnare incontrastati.
Francesca Rita Rombolà
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