Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso nella cultura francese si rinnovano molte forme d’espressione artistica, il cinema in primis, con una vitalità molto produttiva per quanto forse un poco caotica. Questa generazione di registi cinematografici, in Francia, rompe gli schemi e le costrizioni fino a quel momento vigenti, dando vita a una nouvelle vague che si scontra con la rigida censura della V Repubblica di C. De Gaulle. Per la prima volta il cinema francese prende il nome di Nouvelle Vague e, per la prima volta, rivendica la prevalenza del regista che deve portare ovunque il segno e le tracce partendo dalla nuova concezione che il “linguaggio della realtà” è fatto di ambiguità e di una sorta di realtà surreale e sognante, quasi poetica. Da ciò nasce stilisticamente la svalutazione del montaggio a vantaggio del piano – sequenza, delle scene madri a vantaggio della descrizione di comportamenti minimi e irrilevanti, dell’esibizione della tecnica, del gusto della citazione. Dunque, il cinema della Nouvelle Vague riflette su se stesso e conferisce all’arte cinematografica uno statuto e una mission di modernità e di spiccata autonomia artistica davvero unici e nuovissimi. Una vera e propria rivoluzione storica per quel che riguarda il cinema!
Questa breve introduzione per ricordare uno dei padri fondatori del cinema francese della Nouvelle Vague: Jean Luc Godard spentosi ieri all’età di novantuno anni e ultimo esponente della Nauvelle Vague insieme agli amici registi e compagni di una vita, Francois Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Eric Rohmer, ormai morti da tempo. Figura di regista splendida e oscura, semplice ma ambiziosa quanto complessa, Jean Luc Godard ha fatto della sperimentazione nel cinema d’autore quasi una ragione di vita, oltre che artistica, umana e sociale. Della sua arte cinematografica si può dire, senza forzature di sorta, che davvero ha sperimentato di tutto e su tutto spingendosi perfino negli oscuri meandri dei sentimenti umani e della coscienza che li sostiene o li abbandona a se stessi. Tristezza, malinconia, gioia, dolore, esaltazione, rivoluzione dell’anima e della mente caratterizzano un cinema il cui autore sentì sempre come vita e inno alla vita, presentandolo talvolta come veicolo efficace e unico di utopia capace di donare speranza gratuita e spinta a continuare ad ogni costo anche agli artisti più angosciati e alle persone più depresse o vuote. Spesso critico nei confronti di Hollywood, vista come mecca del Cinema assurta ad una massificazione quasi insostenibile, Jean Luc Godard fu, al contrario, maestro indiscusso per molti registi americani di cult che ne hanno saputo cogliere e apprezzare la verve artistica e la sottigliezza immaginativa e assegnandogli perciò l’Oskar alla carriera nel 2011 (il Leone d’Oro a Venezia gli era stato già assegnato nel lontano 1984).
Con Jean Luc Godard finisce un’epoca per il cinema, non solo francese ma internazionale, i cui inizi mai furono tanto insicuri e incerti quanto promettenti e rivoluzionari. Dei suoi molti film mi piace al momento ricordare il suo ultimo lavoro, che risale al 2018, dal titolo “Adieu au Language – Addio al Linguaggio” in cui la visione, di frequente onirica, del quotidiano cerca e trova la fusion ideale con la naturalezza dell’immagine e la vicinanza di una natura ferita a morte, che auspica il proprio riscatto dal predominio dell’uomo e il ritorno di entrambi ad una condizione sognante in cui la Poesia è consuetudine normale e non eccezionale. In questa sua opera, a conclusione di una carriera veramente lunga e geniale, Jean Luc Godard sembra chiedere, indefinitamente e con una punta di malinconia mista ad angoscia e preoccupazione per il futuro dell’umanità e del pianeta: c’è ancora la capacità di vedere il mondo?
Francesca Rita Rombolà
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