Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) è direttore editoriale di Puntoacapo Editrice. Ha pubblicato “Forme” (Genesi, Torino 1989); “Al fondo delle cose” (Novi 1996); “Nel crescere del tempo” (con l’artista valdostano Marco Jaccond, “I quaderni del circolo degli artisti”, Faenza 2003); “Il bene della vista” (Novi 2006, che include la precedente plaquette); “Il libro del male e del bene”, antologia ragionata (Puntoacapo 2016); “Vedere al buio” (ivi 2017); “La spira. Poemetto” (ivi 2019). Ha inoltre pubblicato la raccolta di saggi “Civiltà della poesia” (Puntoacapo, Novi 2008, che raccoglie anche il precedente “Poesia come gesto. Appunti di poetica”) e i racconti di “Creature del buio e del silenzio” (ivi 2012). Ha fondato nel 1995 e diretto fino al 2007 la rivista letteraria “La clessidra” ed è stato redattore delle riviste “Margo” e “L’altra Europa”; ha curato con Alberto Cappi “L’occhio e il cuore. Poeti degli anni ’90” (Sometti, Mantova 2009 e molte altre antologie poetiche e critiche tra cui “Il fiore della poesia italiana” (due volumi, con Vincenzo Guarracino, Puntoacapo 2016); “Dove va la poesia?” (ivi 2018); “Il posto dello sguardo” (ivi 2021). Ha fondato “L’almanacco Punto della Poesia Italiana” (Puntoacapo) pubblicato in cartaceo dal 2010 al 2016 e poi evolutosi nel sito www.almanaccopunto.com. Come anglista si è interessato di Conrad, Tomlinson, Hughes, Bunting, Hulse, Paulin e altri poeti contemporanei. Suoi testi, interventi e recensioni ai suoi lavori sono apparsi sulle maggiori riviste letterarie. E’ membro della giuria dei premi “Guido Gozzano”, “Lago Gerundo” e “Voci di un eterno dire”. E’ stato direttore culturale della Biennale di Poesia di Alessandria e attualmente è Presidente della sua evoluzione: la Biennale Italiana di Poesia fra le arti (www.biennalebipa.com).
Francesca Rita Rombolà e Mauro Ferrari dialogano di poesia, di letteratura, di arte.
D – Mauro Ferrari, iniziamo a dialogare per poesiaeletteratura.it con una domanda forse piuttosto scontata: qual’è, secondo te, lo “stato dell’arte” della poesia italiana, e della poesia in generale, in questo momento, cioè i primi decenni del ventunesimo secolo?
r – La Poesia, come genere, si è ormai spostata ai margini dell’episteme e “il mestiere di poeta” non porta più alcun prestigio, né a un supposto pubblico né tanto meno alla grossa editoria; inutile cercare colpe, sia chiaro: in fondo è accaduto a tutta la letteratura e a ogni forma di arte. La Poesia, che è immateriale e non spettacolarizzabile, mostra solo questa evoluzione in modo più evidente. Una prova molto banale è il fatto che i programmi scolastici non si siano evoluti negli ultimi cinquanta anni: gli studenti, salvo lodevoli ma rare eccezioni, portano gli stessi autori che portai io – nel 1978. Il contemporaneo, ma non solo in letteratura, è rigorosamente bandito. Questo è proprio il punto di partenza per due belle antologie, che ho curato in collaborazione con due importanti poeti con esperienza di insegnamento, “Dove va la poesia” e “Il posto dello sguardo” (Puntoacapo Edizioni). Detto questo, la Poesia – intesa come pratica, a livello letterario – è in buona salute, anche se la cosa può sembrare paradossale: non mi riferisco ai milioni di scriventi che comunque legittimamente la utilizzano come tecnologia del sé o come sfogo, né a un certo mondo amatoriale di editori, premi, letture e quant’altro, ma al fatto che oggi ci siano decine di poeti che, in altra epoca, avrebbero avuto ben altri spazi e attenzione. Per intenderci, però, oggi si scrive come se non ci fossero possibilità di lasciare davvero traccia, cioè in un effimero che forse è la dimensione ineludibile della modernità.
D – La tua esperienza di direttore editoriale della casa editrice Puntoacapo in sintesi.
R – Puntoacapo, fondata nel 2008 con mia moglie Cristina Daglio, ha costituito un catalogo che pone la Poesia al centro (anche se negli anni si è ampliata in ogni settore del contemporaneo), e che per fare questo deve coniugare il rigore delle scelte con la volontà di dare spazio alle voci di qualità. Che non sono poche, il ché ci porta – per un catalogo che offre una trentina di titoli di poesia all’anno – a scelte molto difficili. Per intenderci, non ci interessa proporre solo una manciata di titoli all’anno, per quanto buoni, ma dare l’idea di un vero lavoro editoriale sulla poesia contemporanea, senza ovviamente diventare una casa editrice di facile accesso, cioè senza selezione. Chi pratica poesia per puro hobby, al di fuori di una consapevolezza espressiva e critica, non dovrebbe rivolgersi a noi, come precisiamo nelle informazioni agli autori sul nostro sito. E’ un lavoro che ci da grande soddisfazione anche per un’indipendenza che difendiamo con orgoglio: ne vediamo ogni giorno i riscontri, e siamo convinti di svolgere una funzione molto importante.
D – Sono ancora, e sempre, importanti i premi di poesia per la visibilità e la notorietà di un autore?
r – Dipende, e mi spiego: i premi letterari non di rado sfruttano quel grande bacino di scriventi che si accostano alla poesia in modo del tutto lecito e anche nobile, ma che, come dicevo, non sono interessati alla dimensione letteraria. Questo è un po’ meno vero nelle sezioni di sillogi e soprattutto di libri editi, ma è così. Al contrario, diversi premi di prima fascia subiscono del resto, in un modo o nell’altro, la pressione di quell’editoria che alla poesia dedica solo pochissimi titoli all’anno ma che paradossalmente esige risultati. Detto questo, in quindici anni Puntoacapo ha raccolto quasi centoventi Premi, tra cui quasi tutti i più prestigiosi, una settantina di Premi della giuria e un’infinità di altri riconoscimenti, il ché suppongo ci rende la casa editrice più premiata: la cosa, nei limiti che ho detto, ci inorgoglisce ed è un dato che citiamo molto volentieri, anche a onore delle non poche giurie che hanno avuto coraggio e onestà intellettuale. Per un poeta, ma anche per noi, questi risultati provano che comunque i buoni libri sono letti e apprezzati, anche al di fuori del discorso commerciale. E per un editore di poesia già questa è una soddisfazione.
D – Come vivi, senti, percepisci tu, da poeta, la Poesia?
R – Per me la Poesia è una necessità di espressione, ma anche l’impegno intellettuale di trovare le giuste parole e il giusto modo per dire cose che non possono non esser dette. Un poeta, un artista, uno scienziato, un filosofo non fanno che dare forma a una visione del mondo, con strumenti non troppo diversi. Vedo con piacere che nella recente intervista sul vostro sito anche il prof. Guido Tonelli dice cose simili. Io sono sempre stato un lettore onnivoro, mi interessa, ad esempio, il modo in cui appunto la visione scientifica del mondo (in particolare quella della fisica moderna) corre parallela a quella umanistica: la dicotomia, anzi la contrapposizione tra le due sfere è del tutto fittizia, ed anzi scienza ed arte devono dialogare, perché entrambe rappresentano lo sforzo umano per comprendere al di là delle facili fedi o delle facili disperazioni. Pensiamo al modo in cui poeti e scienziati pensano alla caducità della vita o al tempo: anche se in modo diverso formulano le stesse domande, e cercano risposte. Ben oltre la facile effusione delle proprie sensazioni ed emozioni. Io cerco di misurarmi con queste esigenze. “Vedere al buio” (Puntoacapo Edizioni, 2017) è proprio il tentativo di venire a patti con le limitazioni della nostra mente.
D – Da cosa si può riconoscere (se si può), a tuo parere, un poeta verace, un poeta nel sangue e nell’anima?
R – Punto centrale ma molto difficile da spiegare, perché è innegabile che nella valutazione – sia critica che editoriale, due cose ben diverse – entra un giudizio di gusto, lasciando da parte i puri e semplici errori di valutazione. Io parto da ciò che si vede subito, almeno con una certa approssimazione, cioè lo stile. Può sembrare riduttivo, ma non lo è: se non trovo soluzioni espressive fresche, meglio se originali, comunque forti e definite, allora non siamo nell’ambito della letteratura, ma al limite della comunicazione personale del pensiero. Cosa che in poesia è indispensabile, ma non è tutto. Poi occorre vedere cosa dice il testo, perché anche dopo l’orgia di sperimentalismo, più o meno serio o giocoso, la Poesia dice qualcosa, anzi dice molto. E fare poesia implica proprio dire molto con le parole giuste, al di là di tanta retorica da assessore alla cultura e turismo o appassionato della domenica. la Poesia è arte del linguaggio, e di nuovo senza retorica o mistica o che altro (non è magia, non è dono degli dei, non è uno spirito che abita dentro) è la razionalizzazione delle migliori idee creative dell’uomo; come ogni forma d’arte, certo, ma usando come materiale le parole, tutte parole che più o meno usiamo ogni giorno e sono nel vocabolario (il quale quindi include ogni poesia, ogni possibilità di discorso, ogni idea). Ecco, un poeta vero sa usare quelle Parole per dire cose che non possono non essere dette, che devono essere dette oggi e che resteranno (restano) sempre valide.
D – Hai un qualche possibile messaggio da dare a chi ama, legge, sostiene la Poesia e i poeti?
R – No, nessun messaggio. Io credo che chi davvero stima e coltiva la Poesia stia facendo quasi tutto il possibile: bisognerebbe forse cambiare una certa prospettiva per cui – anche per noi poeti – il punto di approdo sia una certa editoria che in realtà non crede per nulla alla poesia: e qui basterebbe vedere, anche solo dal punto di vista quantitativo, quanti pochi libri hanno davvero visibilità nazionale. Cinque all’anno, dieci? E bisognerebbe disinnescare un certo mondo accademico troppo corteggiato che poi continua ad assegnare tesi su Ariosto, o Premi i cui risultati, e lo sanno tutti ma non si dice, sono decisi a priori. Non è polemica, comunque, ma uno stimolo per tornare a dare valore ai veri poeti al di fuori delle etichette. Tanto, nella poesia non gira né denaro né potere. E chi crede che quello esercitato goffamente da certe consorterie sia vero potere … dovrebbe davvero cambiare mestiere.
Francesca Rita Rombolà
Mauro Ferrari
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