Un libro ricco di aneddoti e di facile lettura, interessante e piacevole per scoprire un mondo, non tanto lontano nello spazio e un poco nel tempo, quanto piuttosto distante dalla cosìddetta “civiltà avanzata” dell’uomo bianco conquistatore, distante quasi in tutto ma non selvaggio, primitivo, crudele come si potrebbe pensare (o si è sempre pensato) comunemente.
“Infanzia indiana – Indian boyhood di Charles A. Eastman (Ohiyesa), a cura di Raffaella Milandri (Mauna Kea Edizioni, febbraio 2023), non è soltanto la descrizione precisa di usi, costumi, consuetudini, credenze ecc ecc. di un popolo quale i Sioux Dakota – Nativi americani ma una narrazione che affabula e rammemora, e soprattutto vista, vissuta, sentita da un bambino e con tutto ciò che un bambino vede, vive, sente, sicuramente circonfusa da una sensibilità molto diversa da quella degli adulti. Colpisce molto ( e non può essere altrimenti) constatare spesso che la vita di un bambino indiano d’America ha qualcosa di toccante e di magicamente dolce e aspro a un tempo; l’infanzia ha un ché di epico e conserva tutto il plastico incanto che la caratterizza ad ogni latitudine e presso ogni popolazione. Non mancano le prove di iniziazione che scandiscono puntuali le varie fasi della crescita fino all’età adulta. Non manca un certo umorismo sottile che talvolta alleggerisce la narrazione rendendola di una vivace amenità. La natura con i suoi animali, le sue piante, le sue manifestazioni, inserite in un contesto endemico, risulta protagonista quasi assoluta su uno sfondo in cui le lancette del tempo ciclico rispettano il loro andamento primario.
Ecco un passo del libro tratto dal Capitolo I. I PRIMI RICORDI – I Hakadah, “l’ultimo pietoso”, pag. 18, che ne da una descrizione molto pertinente: ” ( … ) Quando c’era selvaggina e splendeva il sole, dimenticavo facilmente le amare esperienze dell’inverno precedente. Non si preoccupavano molto per il futuro. Sono figli della Natura, che di tanto in tanto li frusta con le sferzate dell’esperienza. ( … ) Durante l’estate, quando la Natura è al suo meglio e provvede abbondantemente al “selvaggio”, mi sembra che nessuna vita sia più felice della sua! Il cibo è libero, l’alloggio è libero, tutto è libero! Tutti erano ricchi allo stesso modo in estate e, di nuovo, tutti erano poveri allo stesso modo in inverno e all’inizio della primavera”.
O anche alcuni brani tratti dal Capitolo II. LA FORMAZIONE DI UN RAGAZZO INDIANO, pag. 44 – 45: ” ( … ) Tutti i ragazzi dovevano sopportare le difficoltà senza lamentarsi. In una battaglia cruenta, un giovane deve essere naturalmente un atleta e abituato a subire ogni tipo di privazione. Deve essere in grado di stare senza cibo e acqua per due o tre giorni senza mostrare alcuna debolezza, o di correre per un giorno e una notte senza riposare. Deve essere in grado di attraversare un paese inesplorato e privo di sentieri senza perdere la strada né di giorno né di notte. Non può rifiutarsi di fare nessuna di queste cose se aspira a diventare un guerriero. ( … ) Ci veniva insegnata la generosità verso i poveri e la riverenza verso il “Grande Mistero”. La religione era la base di tutta la formazione indiana”. E dal Capitolo III. I MIEI GIOCHI E I MIEI COMPAGNI DI GIOCO, I giochi e sport, pag. 47 – 63: “Il ragazzo indiano era un principe della natura selvaggia. Durante il periodo della sua fanciullezza aveva pochissimo lavoro da svolgere. La sua occupazione principale era la pratica di alcune semplici arti di guerra e di caccia. A parte questo, era padrone del suo tempo. ( … ) Non sarà esagerato dire che la vita del cacciatore indiano era una vita affascinante. Dal momento in cui si allontanava dalla sua rozza dimora in mezzo alla foresta, la sua mente libera si perdeva nella miriade di bellezze e forze della natura. Eppure non dimenticava mai il pericolo quotidiano di qualche nemico in agguato o di qualche bestia selvaggia, per quanto la sua passione per la caccia fosse coinvolgente ( … )”.
Mi sento di dire che la lettura di questo libro mi ha confortato molto, ripensando anche alla mia infanzia vissuta in un contesto non propriamente super tecnologico dove l’immersione nella natura era ancora possibile. Riporto, a conclusione, proprio le battute finali del libro tratte dal Capitolo XII. PRIME IMPRESSIONI SULLA CIVILTA’,pag. 83: ” ( … ) Nel tardo autunno raggiungemmo l’insediamento cittadino di Flandrean, nel Dakota del Sud, dove mio padre e altri vivevano tra i bianchi. Qui finì la mia vita selvaggia e iniziarono i miei giorni di scuola”. Frasi che sembrano chiudere davvero un’età beata e insieme delicata della vita, per avviarsi verso l’età adulta e la sua ineluttabile e disincantata complessità.
Francesca Rita Rombolà
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