“Faceva caldo, ma la diversa consistenza delle ombre e dell’aria rivelavano un imminente cambio di stagione. Tuttavia non per la bella estate mediterranea che declinava si rammaricò Florentin quando percepì il mutamento, per le sue lunghe giornate che versavano la vasta luce sulla città e sul mare e si spegnevano nel profumo dell’erba degli orti e dei giardini, ma per il tempo che aveva sprecato. Per il nudo tempo, il tempo disadorno. Per la somma totale di ore, di giorni indistinti. Perché gioielli, amore, denaro, libertà tutto può essere rubato, recuperato e perso ancora. Il tempo no. I giorni buttati, o portati via, non tornano indietro”. E’ un breve primo estratto, pagina 29, del romanzo ” Il Gran Tour” ( Chipiùneart Edizioni, 2022 ) di Adele Costanzo del quale ho appena terminato la lettura. E’ un romanzo storico in quanto le vicende narrate trovano ambientazione nei primi decenni del diciottesimo secolo, ed è insieme un romanzo dal taglio fresco, attuale e quasi piacevolmente sbarazzino pur nella sua profonda complessità e nella varietà delle sfaccettature che lo caratterizzano. La prosa di Adele Costanzo, in questo romanzo, risulta impeccabile; la sua scrittura si presenta fluida, scorrevole, impegnata nello stile purtuttavia che sa donarsi con un certo piacere al lettore più esigente come a quello un poco più distratto; sa prestarsi al rigore come alla sinuosa semplicità della penna, delle idee e dell’immaginazione che vi camminano a braccetto. I protagonisti del romanzo, dal giovane Henri Trespetit e il suo maestro – precettore Bachume ad Antonia, l’innamorata del primo, al giudice Maxim Trespetit e la duchessa Alphonsine sua moglie, genitori di Henri, al gendarme Florentin e ai molti altri che animano, in un modo o nell’altro, l’intero romanzo riescono ad essere credibili e svelti ciascuno nel proprio ruolo che l’autrice ha assegnato loro. Il gran tour è il viaggio che quasi ogni famiglia nobile, o comunque appartenente alla ricca borghesia di provincia, in Francia ma anche in altre nazioni d’Europa, fa compiere all’epoca al proprio rampollo in quella che non era ancora l’Italia come entità politica compatta e indipendente ma che comunque lo era nell’affinità dei costumi, delle tradizioni, delle speranze o delle illusioni da nord a sud della penisola; un viaggio di studio, di apprendimento, di piacere anche; un viaggio dello spirito e dell’anima attraverso una terra unica per storia, civiltà, arte e bellezza del paesaggio. Del resto bisogna dire anche, al riguardo, che all’epoca è quasi una moda per gli intellettuali e gli artisti degli imperi e dei regni del nord Europa “scendere” nella lussureggiante e florida penisola italica come “a caccia” di ispirazione per le loro opere. Ne sono un esempio Goethe, i preromantici e romantici Stendhal, Chateaubriand, Shelley, Keats e altri, si può dire con certezza, fino ai nostri giorni ( ho conosciuto anni fa l’intellettuale Marc Tamet, direttore artistico di un teatro di arte moderna di Parigi, che viaggiava solitario attraverso il sud dell’Italia per trovare nuovi – vecchi stimoli per la sua scrittura e la sua produzione artistica). Questa descrizione, a pagina 90, può forse dare l’idea di una percezione emotiva che sa di esotismo e di terra di frontiera ma che non può tuttavia mai prescindere dalla sua magia e dall’incanto nel cuore e nella mente dello straniero che la attraversa scoprendola e vivendola. “( … ) Una terra contesa, gli parve, incompiuta, precaria, schiacciata tra l’inflessibile presenza delle Alpi e la fluidità aggressiva o indolente del mare. Senza pace, perciò poco amichevole, poco incline ai compromessi. C’era da aggiungere che il paesaggio scendeva rapidamente dalle alture alla costa e numerose correnti ne seguivano la pendenza logorando i fianchi dei monti. Non era difficile immaginare ciò che accadeva a primavera, quando i corsi d’acqua, gonfi per i disgeli, debordavano dai piccoli letti e, ligi alla forza di gravità, rovinavano a valle. O in autunno, quando scaraventavano sulla costa un limaccioso impasto di terra, di foglie dei boschi cedui e di sassi”.
Per Henri Trespetit questo “gran tour” sarà, oltre che un viaggio avventuroso e non privo di pericoli, un’iniziazione all’amore, all’età adulta e soprattutto alla libertà; libertà sì che verrà raggiunta anche dal suo acuto e colto precettore inseguito da un Florentin puntiglioso e inflessibile, per diserzione dall’esercito francese, da un punto all’altro della penisola italiana (non manca molto, del resto, allo scoppio della Rivoluzione Francese, anno 1789, in cui il principio e ideale di libertà costituirà uno dei cardini sui quali poggerà: Liberté, Egalité, Fraternité). Henri ne uscirà maturo e pronto ad inseguire il mondo con la vastità dei suoi orizzonti, il sogno e il cambiamento, il sentore di tempi nuovi che si preparano per la società e la mentalità di già annunciatori latenti della “violenza eruttiva” trascinatrice e distruttrice.”C’è un’ironia feroce nel sogno che si realizza quando hai smesso di sognare. Sono gli appuntamenti mancati, le asincronie, e si verificano quando la cosa che volevi, che sia una donna, la bella stagione, la ricchezza o la maggiore età, un giorno arriva ma tu non sai che fartene perché è successo che nulla più t’importi né ti smuova, a parte l’inizio primordiale a sopravvivere. ( … )”. Le parole, a pagina 21, con un ché di profetico, di Bachume all’inizio del viaggio le quali sembrano suonare come una specie di monito a tutti, compreso il lettore.
Henri Trespetit, Antonia di Grugliasco e Bachume da viaggiatori privilegiati prima, avventurieri dopo, si trasformeranno in fuggiaschi. Una fuga la loro creatrice di tensione che vuole poggiare quasi su un modo di essere permanente e alla quale non manca, elemento azzeccato direi, il cane Zecca, randagio accolto da Henri nei pressi di Torino, e che da un tocco di tenerezza al tutto. Splendida descrizione, a pagina 272, del cimitero ebraico di Ancona quando la fuga è ormai imminente e andrà, diciamo, a buon fine: “La città si estendeva appena un pò più in basso, terrena e certa, ma quel campo deserto e ricoperto d’erba bassa e lapidi, ad anfiteatro sul mare, aveva un ché di lunare, di più astratto della stessa morte. Henri vi percepiva un’assenza assoluta, una specie di irrecuperabile lontananza contro cui nulla potevano quei segni incisi sulle pietre, così indistinguibili tra loro e così simili ai caratteri di un alfabeto esiliato e rimosso”.
Dopo avere sperato e palpitato, corso e camminato con i personaggi si prova una certa nostalgia che non si riesce a spiegare … e dunque si può dire di essere soddisfatti della lettura di “Il Gran Tour” di Adele Costanzo, perché i “buoni romanzi e la buona scrittura di una volta”, come si suol dire, esistono ancora e danno ancora qualcosa a chi voglia leggerli.
Francesca Rita Rombolà
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