Talvolta i sogni si realizzano, talaltra invece sono destinati a rimanere vaghe chimere senza testa, oppure a volte può capitare perfino che si realizzino fin troppo finendo per trasformarsi in accordi musicali sghembi e disarmonici, ghiotta preda, così, di nemmeno troppo impetuosi soffi di vento – preludi di tempeste che possono spezzarli – e che in effetti finiscono inesorabilmente per farlo.
“Gli accordi spezzati” (BastogiLibri, 2024) è il primo romanzo di Roberto Maggi, un autore che stimo e apprezzo e con il quale ho un rapporto epistolare piuttosto frequente, anche se discontinuo. Un romanzo (più o meno) sofferto nella sua stesura e nella sua messa a punto finale, ma che si rivela efficace e, a suo modo, brillante nella struttura. La copertina accattivante (peraltro realizzata da una foto dello stesso autore) sa creare un effetto artistico sicuro che colpisce l’occhio attento e a caccia di segnali d’arte. “Gli accordi spezzati” di Roberto Maggi è un romanzo non lineare, e tuttavia fluido come l’acqua che si adatta a qualunque forma, la cui scrittura colta è in grado di penetrare nell’anima e di stimolare la mente verso l’apertura e la profondità. Roberto Maggi racconta storie nel suo romanzo, storie fatte di vissuti diversi dove la scansione del tempo è un impulso interiore che non segue più le leggi della fisica e diventa quasi uno scavo alla ricerca di un qualcosa di inafferrabile e di inesprimibile perduto e desiderato, in una sorta di coazione a ripetere dolorosa e assillante. Sembra, in alcuni tratti, un flusso di coscienza marcato dalla punteggiatura saltata (niente paura, si sono serviti di questo “strategemma” anche James Joyce in “Ulysses e il Premio Nobel per la Letteratura José Saramago in “Il Vangelo secondo Gesù”) poiché questi rappresentano l’unico modo, forse, per lo scrittore quando vuole comunicare il disagio, l’insofferenza, l’urgenza quasi di cambiamento, la carica rivoluzionaria e il culmine della Storia che non possono aspettare più. La musica gioca un ruolo non secondario in tutto il romanzo: brani di testi di canzoni famose si intrecciano ai titoli dei capitoli spazianti nella musica classica, insieme formando e realizzando l’incipit di ciascuno dal primo all’ultimo. Ogni capitolo poi si presenta come una specie di piéce teatrale: già dalle prime frasi si alza il sipario e i vari attori appaiono sulla scena muovendosi sul palcoscenico senza seguire un copione prestabilito, però indossando una maschera metaforica … perché la loro non è una recita, è la realtà, è la vita, e nella realtà e nella vita spesso, anzi direi quasi sempre, si indossano maschere in ogni circostanza e in ogni situazione, per vivere (e per sopravvivere), e ogni giorno una maschera diversa a seconda del ruolo fattuale e del personaggio da interpretare.
Mi piacerebbe definire questo romanzo un blues lacerante le cui note bucano il silenzio fitto intorno a noi, essendo il blues un genere musicale intriso di dolore, di sopraffazione, di sfruttamento, di oppressione, la musica dei derelitti, il canto dei disperati e degli ultimi della società, e immaginare, lontanamente e metaforicamente, una figura (simbolica e ricorrente in un certo tipo di inconscio collettivo) di “musicista maledetto” (speculare a quella di “poeta maledetto”) che, sola e solitaria, con il suo sassofono o la sua chitarra, intona qualche nota su un mondo ormai deserto e distrutto affermando, ancora una volta sì, la potenza della musica, e dell’Arte in generale, per ricominciare, per ri-assemblare gli accordi spezzati dalle ceneri fredde e indurite.
Francesca Rita Rombolà
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