Friedrich Holderlin (1770 – 1843), fra i massimi poeti del romanticismo tedesco ed europeo, ebbe un senso vivo e commosso della natura che sentì, e percepì, come una presenza divina attorno all’uomo. E proprio nell’ampio e libero respiro della natura il poeta ode l’alito fremente della libertà e il caldo vincolo della fraternità umana. Nella poesia “Le querce” sono presenti questi due momenti della sua ispirazione profonda e intensa: l’amore della natura e l’affetto per i suoi simili. Quest’ultimo sentimento gli impedisce, però, di raggiungere quella libertà astratta, quasi assoluta, tanto cara ad altri poeti romantici, che equivale in realtà alla solitudine e alla fuga dalla società e dai suoi problemi. Il poeta sale dalla città, in cui la natura è come “imbrigliata” dagli uomini e dalla loro civiltà, sulle montagne dove crescono libere, vigorose e possenti le querce. Nella sua vibrante quanto infinita immaginazione sembrano a lui le querce dei Titani, i giganti della mitologia classica, figli della Terra e del Cielo. Negli ultimi versi della poesia, soprattutto, vi è espresso il dissidio (tutto romantico) fra l’amore individuale della libertà e lo spirito della convivenza sociale.
La quercia è, fin dall’antichità, così cara a tutti i popoli dell’Europa … forse per la sua maestosità e grandezza, per i suoi molti rami e il suo tronco, che possono assumere forme varie, belle e particolari fino a raggiungere altezze anche consistenti, forse per la sua frescura d’estate e la sua protezione dai rigidi freddi d’inverno, forse per il senso di quiete, di silenzio e di presenza quasi soprannaturale che si respira sostando in un bosco di querce nel primo autunno come nei giorni tiepidi della primavera o in quelli lunghi, caldi e luminosi di luglio. Ho vissuto tante volte, e in ogni periodo dell’anno, l’esperienza di sostare, in meditazione solitaria, o semplicemente per riposare soltanto, questa esperienza meravigliosa in un bosco di querce; ho avuto anche la “mia quercia preferita” sotto l’ombra della quale e al riparo dei cui rami ho fantasticato e immaginato tanto dall’infanzia fino alla giovinezza piena, uscendone ogni volta rafforzata nello spirito e nella mente, confortata nell’anima e vivace e sicura nell’ispirazione artistica. Splendida e particolare è la foglia di quercia, risaltante all’occhio il suo frutto unico (la ghianda), che da nutrimento agli animali, come può darlo anche agli umani, se sanno accettare tutto ciò che la natura offre spontaneamente e gratuitamente nei momenti più complicati, difficili o estremi, riposante e brulicante di vita il sottobosco in un bosco di querce, dove si può riposare e cercare dall’erba al fiore fino ai funghi e ai tuberi più prelibati, trovandoli davvero spesso con gioia e una punta di soddisfazione che non si riescono mai a celare. In un bosco di querce il tempo si ferma o rallenta … e dall’infanzia fino alla vecchiaia si può vivere l’intera vita in istanti che non trascorrono più, trattenendo per sempre anche i ricordi più fugaci insieme a quelli più duraturi.
LE QUERCE
Io vengo dai giardini in mezzo a voi,
figlie della montagna! Dai giardini,
ove La Natura paziente vive
una vita domestica, raccolta
in mezzo agli uomini operosi; e ne ricambia
con sollecite cure, ella, le cure.
Ma voi, divine, voi, qui soggiornate
in un mondo più placido: e sembra un popolo
di vigorosi Titani, il vostro aspetto.
Vostre, voi siete. E della Terra Madre,
che vi espresse da sé: dell’almo Cielo,
che vi nutrì perché cresceste in lui.
Nessuna di voi si sottomise ancora
alla saccente volontà dell’uomo.
Vi sollevate libere e gioconde
da potenti radici, ecco, nell’aria
a ghermire, come aquila la preda,
con forti braccia il prodigioso spazio.
E di contro alle nubi, ampia, raggiante,
dritta vi si erge l’assolata chioma.
Ed è, ciascuna, un mondo.
E come gli astri
vivete voi. Ciascuno, un dio: che esiste
libero – avvinto alle altre stelle tutte.
Se piegarmi potessi a viver schiavo
querce silvestri, io non conoscerei l’invidia,
che mi prende di voi. Mi adatterei
fra gli uomini, contento …
Oh se d’un tratto
non mi avvincesse più questo mio cuore
che d’amar non si sazia, agli altri umani,
come felice abiterei per sempre,
figlie della montagna, in mezzo a voi!
Francesca Rita Rombolà
Nessun commento