Il titolo di questa poesia famosa è preso dal poeta latino Ovidio: “Stabat nuda aestas”/Stava nuda l’estate. Il poeta Gabriele D’Annunzio vuol dare il senso della stagione estiva, del solstizio d’estate, che si diffonde e impregna di sé la natura animandola e colmandola pienamente. L’estate appare, dunque, al poeta come una figura femminile, dapprima intravista tra i pini, nell’afa e nel silenzio, quindi raggiunta fra argentei ulivi e nelle stoppie, e infine scoperta nella sua grandiosa nudità, così come recita il titolo, oltre il falasco, sulla riva del mare, in mezzo alle alghe, la sabbia e la bianca schiuma delle onde.
L’estate è quasi come una “creatura vivente” (una donna bella, sfuggente, sempre adolescente e con lunghi capelli ) che si rivela poco a poco, dal bosco alla pianura, fino al mare: la si sente nell’afa e nel silenzio delle ore più calde intorno al mezzodì, nell’odore del serpente, che la ama particolarmente per il caldo avvolgente che genera, nel canto dell’allodola, che ringrazia del tempo felice, nel crepitìo secco del falasco, nell’immensa e aperta distesa della spiaggia con il mare tranquillo e pigro sotto i raggi infuocati del sole. E’ una poesia fatta più di sensazioni che di descrizioni, proprio in fondo secondo le più tipiche caratteristiche di Gabriele D’Annunzio, poeta davvero impareggiabile e unico nel far “sentire”, “percepire” la natura quasi fosse, appunto, un essere vivente e vibrante il quale comunica fremiti e desideri, sensazioni contrastanti e meravigliose. In questa lirica dominano il silenzio e l’attesa in cui si compie il grande evento del solstizio d’estate che dilaga caldo e lussureggiante come solo a latitudini mediterranee sa fare. Era per gli antichi latini, questo tempo, il momento atteso del riposo e dell’abbondanza dopo il lavoro intenso nei campi e al termine di un raccolto sempre generoso di frutti e di messi; era così fino a pochi decenni fa presso la civiltà contadina dei piccoli borghi italici ad ogni latitudine, oggi ormai quasi del tutto estinta e sostituita da una mera rincorsa al divertimento frivolo e ignorante di tradizioni, conoscenze e vissuti più “naturali”, più semplici, più fecondi per lo spirito e per l’anima.
Stabat nuda aestas
Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la resina gemette giù pè i fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.
Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento palladio trasvolare
senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.
Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea messe nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò né i suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità
Francesca Rita Rombolà
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