George Gordon Byron, Lord Byron, (VI barone Byron) nasce a Londra (Gran Bretagna) il 22 gennaio 1788, morirà a Missoulungi (Grecia) il 19 aprile 1824, perciò quest’anno (2024) ricorre il bicentenario della sua morte.
Byron, il poeta melodrammatico “sfruttatore” delle proprie emozioni; Byron, il poeta – rapsode della natura; Byron, il poeta idealista liberale in guerra contro l’oppressione politica; Byron, il poeta anarchico e ribelle ostentatamente nemico di tutti gli atteggiamenti morali convenzionali; Byron, il poeta aristocratico osservatore dei fatti storici; Byron, il poeta ironico; Byron, il maestro dei versi colloquiali; Byron, il poeta – creatore di un tipo di poesia narrativa e discorsiva abbastanza libera da consentirgli di commentare la vita e il costume contemporaneo ed anche il proprio carattere, il proprio fato, i propri gusti e i propri pregiudizi; Byron, il poeta sarcastico ed edonista che rifiuta di prendere sul serio se stesso o chiunque altro; Byron, il poeta romantico inglese che ha forse dato i dettami ad un’intera epoca; Byron, il poeta propugnatore del titanismo puro nell’arte e insieme nella vita.
George Gordon Byron, Lord Byron, spietato contro se stesso quanto contro ogni forma di dispotismo e di coercizione, umana, politica, sociale, tenace difensore della libertà (forse, perfino, di una libertà quasi impossibile per gli essere umani) tanto da andare a combattere per la libertà della Grecia, oppressa dall’impero Ottomano, e di morire , in giovane età, lontano dalla sua terra e dal suo mondo.
Dopo aver condotto in patria una vita di cosciente dissipazione, nel 1809 il poeta intraprese un viaggio durato quasi due anni che lo condusse attraverso la Spagna, Malta, l’Albania e la Grecia (saranno diversi i suoi viaggi, anche in Italia), un viaggio dal quale egli trasse copioso materiale poetico e che gli fornì anche l’occasione di modellare quel personaggio del “viandante” di animo nobile e acuta sensibilità messo al bando da una società che, a sua volta, egli disprezza (pur soffrendo di questa “sorta di esilio forzato”) – un personaggio che il poeta svilupperà più tardi e trasformerà nel caratteristico “eroe byroniano” (che è anche, naturalmente, un autoritratto), dopo che il naufragio del suo matrimonio (1816), ed i conseguenti scandali, lo avevano costretto ad un “permanente esilio” all’estero. I viaggi del periodo 1809 – 11 furono messi a frutto proprio per i canti di quella che è forse la sua opera più famosa e più riuscita, cioè “Childe Harold’s pilgrimage”, infatti l’itinerario seguito dal protagonista è lo stesso del poeta, e il giovane Harold – questo personaggio sensibile, deluso, generoso, incline a rapsodici “excursus” storici e sempre pronto ad esortare le nazioni decadute ad insorgere e a ritrovare la gloria (e la libertà) perdute – questo personaggio rappresentava una proiezione ideale del poeta stesso, per quanto questi lo negasse recisamente ( quale personaggio non ha mai rispecchiato in fondo … non rispecchia il proprio autore?).
Grazia e sublimità caratterizzano le sue liriche, un’innata forza interiore mista ad una sensibilità eccezionale fanno di Byron un “poeta eletto” dalle Muse nella cui opera passioni e sentimenti, tragedia e ironia, orgoglio e morbosità, ambiguità e inquietudini profonde si intrecciano e si mescolano in quella “alchimia divina” propria dei poeti di ogni tempo. Memorabile fra le liriche di questo poeta “inglese fin nel midollo delle ossa” è un piccolo e semplice componimento di quattro brevi strofe, scritto in Italia nel 1817; in esso il poeta, ricordando un vecchio ritornello scozzese, si trova improvvisamente di fronte alla perdita della propria adolescenza – giovinezza e della propria “avventurosità” emotiva: “Più non andremo vagando/così tardi nella notte/anche se meno amore non ha il cuore/e come prima brilla la luna …”
Duecento anni e pochi mesi son passati dalla morte del poeta … forse due anni appena, forse due giorni, o due attimi soltanto … o forse nessun tempo a cancellarne la memoria, la vita avventurosa, il canto, le gesta… poiché non si addice, non si addice mai, al poeta la tomba, il sepolcro, la morte; non si addice a questo Titano spietato del Romanticismo, cultore della libertà e del sogno.
Francesca Rita Rombolà
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