Strano romanzo “Charleston dell’apatia” di Sergio Sozi (ChiPiùNeArt Edizioni, ottobre 2024), purtuttavia, bisogna premettere subito, interessante e molto piacevole da leggere. Direi che io lo vedo nella sua funzione precipua, cioè di allegoria volta a smascherare e a rivelare e, insieme, a mantenere un profilo basso e latente, e a velare il suo sottile messaggio al lettore.
Lo stile narrativo di “Charleston dell’apatia” è minimal e decisamente post – moderno; non può sfuggire in nessun modo l’ironia che lo pervade dalla prima pagina fino all’ultima le quali rilasciano, appunto, una narratività leggera, quasi soft, dietro la profondità delle idee e della metanarrazione. La scrittura, in particolare, come la cultura, in genere, stridono quasi sul piano della realtà quando ci presentano un protagonista la cui vita è più una lotta per la sopravvivenza quotidiana in un condominio, in un quartiere, in una città metropolitana, che una professione a tempo pieno quale, forse, dovrebbe essere quella dello scrittore, o quantomeno quella di chi fa del libro la propria dispensa di pane quotidiano; ricorda ciò, per alcuni versi, la vita dell’artista (poeta, scrittore, musicista, pittore etc.) nella Parigi de “I fiori del male” di Baudilaire, o quella de “Una stagione all’inferno” di Rimbaud, metropoli unica al mondo, e ormai moderna (con qualche accenno perfino di una post – modernità da secoli futuri), prototipo anche di quelle città – megalopoli che l’Occidente super industrializzato e opulento conoscerà, e sperimenterà, in tutti i suoi aspetti sia positivi che negativi, davvero nei due secoli successivi … una vita, direi, con una certa cognizione di causa, di battaglie, di sotterfugi, di rinunce, di intrighi, perché no?, in cui non si accantona di certo neanche il connubio con il malaffare, se questo può portare ricchezza materiale. Soldi. (Del resto, cito ancora lui quale esempio pertinente, lo stesso poeta Rimbaud, per sopravvivere alla povertà sempre latente, fu perfino mercante di schiavi in Africa).
L’artista – dunque – nel mondo post – moderno come in quello agli inizi della modernità, in “Charleston dell’apatia” di Sergio Sozi. Ma non solo questo: la trama del romanzo sembra avere un ché di surreale e di febbricitante, una sorta di ansia incredibile, come una specie di urgenza – bisogno di libertà ( o della libertà) che non può essere più rimandata (libertà sociale, politica, artistica, ma soprattutto umana). Ben costruita, a tale riguardo, la vicenda del treno i cui passeggeri, in fuga da un regime oppressivo ignorato (o dimenticato) dal resto del mondo, affronteranno un viaggio incerto di tre anni per raggiungere un possibile luogo immaginifico in cui vivere liberi, da tutto e da tutti, e possibilmente felici; metafora, questa, di una realtà politica vissuta, nei decenni passati, da quasi tutti i popoli slavi dell’Europa dell’est.
A sorpresa quasi il finale del romanzo, che si tinge un poco di giallo e sfocerà, proprio nelle ultime battute, in una spy – story a lieto fine in cui ad affermare, però, il proprio primato è la libertà, veramente, incondizionata dell’artista che non si piega … e non potrà mai essere piegato. Reminiscenze classiche fanno poi capolino, sparse un po’ per i vari capitoli, in tutta l’opera: viaggio iniziatico al centro della terra – sotterranei del condominio, l’Onfalo (o ombelico del mondo) con tanto di elfo psicopompo che accompagna il protagonista, l’Eneide di Virgilio con riferimento a Polidoro, trasformato in albero, l’uso del latino nell’ultimo capitolo, “Latinorum”, quasi ad “esorcizzare”, forse, un ventunesimo secolo, ancora nei suoi primi decenni, privo di guide culturali e di indicatori presenti e futuri in tal senso. Un romanzo, “Charleston dell’apatia” di Sergio Sozi i cui spunti rimandano sempre ad un oltre e ad un aldilà della pagina precedente e successiva.
Francesca Rita Rombolà
Nessun commento