“(…) Ci sono epopee sbilenche, che non pongono capo a un’opera perfetta ma a un fiume lutulento. Può darsi che non soddisfino le regole dell’estetica, ma soddisfano la funzione fabulatrice, che forse è così direttamente connessa alla funzione estetica (…)”.
Brano tratto da SUGLI SPECCHI – E altri saggi – di Umberto Eco
Parliamo un po’ del romanzo e della figura del romanziere o narratore. E anche se l’argomento è vasto, pieno di contraddizioni, piuttosto ambiguo e di difficile dissertazione, tenteremo di capirci qualcosa e di dire qualcosa.
Partiamo dal presupposto che il romanziere non dovrebbe fornire interpretazioni della propria opera altrimenti è come se non avesse scritto un romanzo, il quale può essere definito un qualcosa che genera interpretazioni.
Un romanzo deve avere sempre e innanzitutto un titolo, e un titolo è la prima e forse la chiave principale di interpretazione di un’opera. Il romanziere non deve dare interpretazioni della propria opera certo, però può dire o raccontare perché e come ha scritto.
Lo scrittore e poeta americano Edgar Allan Poe non dice nulla e mai su come lo si deve leggere, però si sofferma spesso sui problemi di varia natura che si è posto per realizzare un effetto poetico. Un effetto poetico? Che cos’è un effetto poetico? Forse è la capacità che un testo (un romanzo, una raccolta di poesie ecc. ecc.) ha di generare letture sempre diverse senza mai esaurirsi completamente. Chi scrive (ma anche chi dipinge, scolpisce, compone musica) sa come deve fare, cosa fare e quanto ciò gli costa in termini di dispendio di energia psichica e anche fisica.
Egli deve risolvere veramente un grande problema. E può capitare che i dati iniziali siano oscuri, pulsionali e ossessivi, forse un ricordo tenue o una forma di volontà remota. Più tardi, però, il suo grande problema dovrà essere risolto, diciamo così, “a tavolino”, facendo “domande” e “pressione” alla materia su cui lavora, che ubbidisce a delle sue proprie regole di natura, ma, allo stesso tempo, reca con sè il ricordo della cultura di cui è colma. Quando lo scrittore (o anche l’artista in genere) afferma che ha lavorato o creato senza pensare alle regole del processo, vuol dire in realtà che ha lavorato senza conoscere le regole, cioè per “ispirazione”, o per “intuito” o per “impulso interiore”.
Ancora Edgar Allan Poe era solito dire che “altro è l’effetto dell’opera e altra la conoscenza del processo”. Infatti, quando Michelangelo diceva che scolpire, per lui, voleva dire liberare dal peso della materia la figura o l’opera già iscritta nella pietra non si sofferma mai sulla qualità dell’opera che uscirà dalle sue mani, cioè non riflette se la sua Pietà Vaticana o il suo Mosè siano migliori della Pietà del Rondanini o dell’Estasi di Santa Teresa del Bernini.
Gli scrittori, i poeti, i romanzieri sanno, da sempre, che le storie, da loro raccontate, parlano, in fondo, di altre storie già raccontate (lo sapeva Virgilio, Torquato Tasso, Wolfgang Goethe).
Scrivere una storia o un romanzo non è mai un accostare confuso di parole, ma un abbracciare il mondo (se non l’Universo) con un senso di vastità a volte imperscrutabile. Il romanziere o il narratore (spesso anche il poeta) deve sempre (lo sa per esperienza personale) indossare una maschera, perché soltanto facendo ciò può starsene dietro a questa e “attutire” i colpi che da ogni parte lo sommergono e lo battono, e che qualche volta possono “farlo anche a pezzi”. Perciò, è necessario crearsi come delle “costrizioni” per poter creare o narrare liberamente.
Nella Poesia o nel poetare la costrizione è data dal piede, dal verso, dalla rima o dalle assonanze.
In narrativa la costrizione è data dal mondo sottostante.
Ad esempio, si può costruire un mondo irreale dove il sole è nero e gli animali parlano come l’uomo, l’importante è che questo mondo esista sempre per mezzo di strutture già definite in partenza, cioè se la sua visione e la sua esistenza siano possibili per quella dimensione e in quella dimensione. James Joyce e Thomas Stearns Elliot dicevano che “entrare” nella dimensione di un romanzo, di una storia è come fare una specie di escursione in montagna: si deve imparare subito a saper ritmare il respiro e a procedere con un certo passo costante, altrimenti non si riesce a procedere.
Si può dire lo stesso per la Poesia: per leggere una poesia in endecasillabi o in terza rima bisogna assumere il ritmo cantato voluto, in sostanza, dai poeti antichi.
In narrativa il respiro e il suo ritmo si affida alle frasi, alle battute, ai dialoghi e alle scansioni di eventi: se, a un certo punto, il fiato si interrompe e un capitolo termina prima che il respiro sia completo ciò può anche segnare un punto di rottura o un colpo di scena nell’intero svolgimento del romanzo.
Possiamo allora dire, con un certo margine di sicurezza, che un grande romanzo è quello in cui l’autore sa a che punto accelerare, frenare e dosare “i colpi di scena” o ” i punti di rottura” nell’insieme di un ritmo di fondo sempre costante! Il romanzo poliziesco, il thriller, il giallo il noir bisogna poi dire che è un genere davvero a parte, in quanto rappresenta una storia di congetture quasi assoluta. Lo si potrebbe forse paragonare un pò ad una ricerca scientifica o a una interrogazione metafisica o filosofica che si sviluppano sempre come iter di congettura.
E la domanda di fondo della filosofia, in senso ampio e radicale, come quella della psicanalisi sembra essere la stessa del thriller o del romanzo poliziesco: di chi o di cosa è la colpa? Per saperlo (o almeno per credere di saperlo) si dovrà congetturare che tutti i fatti accaduti o esposti abbiano una logica, forse (ma non sempre) la logica che ha imposto ad essi il colpevole.
In definitiva, ogni storia di indagine racconta, a tutti noi, qualcosa su un mondo che abitiamo da sempre.
Soffermiamoci ora, brevemente, per finire sul romanzo storico. Forse vi sono tre modi, definiti e distinti, di raccontare il e sul passato. Uno è il romance che va dal ciclo bretone al ghotic novel (romanzo gotico, genere tipicamente “nordico”, letterariamente poco esplorato in Italia) e alle storie di Tolkien, cioè il passato inteso e raccontato quale scenografia e costruzione fantastica per dare libero sfogo all’immaginazione. Un altro è il romanzo “di cappa e spada” alla Dumas, il quale si avvale di un passato reale e riconoscibile e lo anima di personaggi realmente esistiti in un intreccio di vicende forse immaginarie e irreali, forse mai accadute e vissute dai personaggi storici.
Un altro ancora è il romanzo storico forse” vero e proprio”. Tipico esempio ne è I PROMESSI SPOSI di Alessandro Manzoni, dove tutti i personaggi sono realmente esistiti e quel che fanno, le loro vicende, le loro peripezie non potevano che essere fatte e svolgersi realmente che nella Lombardia del XVII secolo.
Di sicuro quello che ho scritto non è completo, come ho avvertito all’inizio, e forse nemmeno esauriente per conoscere appieno il romanzo e colui che lo scrive, ma forse può dare un tantino l’idea per figurarsi quanto questo mestiere sia, in realtà, un “non – mestiere” e quanto sia complicato e sfaccettato capirlo e tentare di intraprenderlo.
Francesca Rita Rombolà
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