Lo scrittore e lo scrivere: un cammino su strade lontane e a latitudini perigliose

22 Settembre 2015
udgentneayid_s4“(… ) Crede seriamente che scrivere sia una gioia?!(…)E’ la rinuncia al sole, all’azzurro, al piacere di camminare, viaggiare, di usare tutto il tuo corpo: non solo la testa e le mani. E’ una disciplina da monaci, un sacrificio da eroi, e Colette sosteneva che è un masochismo: un crimine contro se stessi, un delitto che dovrebbe essere punito per legge e alla pari degli altri delitti. Colonnello, c’è gente che è finita o finisce nelle cliniche psichiatriche o al cimitero per via dello scrivere. Alcolizzata, drogata, impazzita, suicida. Scrivere ammala, signor mio, rovina (…)”.
Brano tratto dal libro INSCIALLAH di Oriana Fallaci
Scrivere è tumulto interiore, continuo e incessante. Scrivere è sofferenza, principalmente dolore: il dolore di se stesso e dell’altro, il dolore del mondo, il dolore di vivere, il grido di dolore dell’umanità imbruttita, schiavizzata, sfruttata, impotente, frustrata che l’anima dello scrittore interiorizza e fa suo per sublimarlo e trasfigurarlo in un qualcosa di meraviglioso e grande al quale diamo il nome di Arte.
Scrivere è totalità e compiutezza. Lo scrittore (il verace, l’intransigente, il tenace) sa benissimo cosa lo scrivere comporti. Comprende, fin dal primo istante, che la sua scrittura lo porterà su strade lontane e a latitudini perigliose dove le mezze misure non sono ammissibili, i compromessi (con il potere, la società, il lettore, se stesso) inaccettabili, l’agire e il lottare per un’idea pericolosi a tal punto da comportare, talvolta o spesso, un alto rischio di minaccia all’integrità della persona, al pregiudizio sociale, al perseguimento giudiziario, all’imprigionamento e alla tortura e fin’anche alla condanna e all’esecuzione capitali.
Le responsabilità dello scrittore sono varie e complesse, di frequente assolute. Lo scrittore impegnato politicamente, civilmente o socialmente, è quasi come un soldato al fronte, che macera le proprie energie intellettive e fisiche quotidianamente nel fango, nel fumo e nel fuoco, nel sangue, nelle dure condizioni di esistenza della trincea dove gli assalti del nemico sono continui e vanno respinti, finché se ne ha la forza; le battaglie incalzano improvvise e micidiali; la guerra si protrae per mesi, per anni e, non è del tutto escluso, perfino per decenni o addirittura per secoli.
Cosa rimane, alla fin fine, di una vita dedicata alla scrittura come alto impegno morale, sociale, civile, politico, umano e artistico? Forse, dopotutto, la consapevolezza, reale o soltanto immaginaria, di essere stati sempre dalla parte del Bene e del Giusto e di averli serviti a discapito del Male, materiale o metafisico, fino al sacrificio supremo, cioè quello della propria vita; perché l’Arte, la cultura, basi o corollari della scrittura, sono il sogno, realizzato o in atto, di ogni civiltà e il rigetto endemico di qualunque forma di barbarie; perché l’animus di un popolo, di un essere umano, uomo o donna, che scrive e dello scrivere si assume le conseguenze profonde, ambigue, urgenti; l’animus quale senso di potenza, di forza creatrice che percepisce e smuove fa di una roccia durissima un fuoco, di un muro insormontabile una fiamma sottile come l’aria scruta e vede, quasi sempre, oltre la superficie delle cose e le opinioni correnti.
Animus
Fine della civiltà
o dei sogni?
Dura è ogni pietra
all’avanzare della barbarie.
La roccia si spacca
col fuoco che brucia
il sangue sublimato,
ma la fiamma sottile
purifica il gelo
dei muri intatti
fra le rovine.
Francesca Rita Rombolà

 

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