Lucilla Continenza è nata a Pescina dei Marsi(AQ)ma è sempre vissuta a Milano. Mantiene, però, vivo il legame con le sue radici marse o marsicane.
E’ laureata in Scienze Politiche ed è iscritta all’Ordine dei giornalisti come pubblicista dal 2003, anche se pubblica dal 1996.
Per anni ha recensito spettacoli teatrali, soprattutto di prosa. Dopo diverse collaborazioni, ha prima fondato un sito web con un’amica antropologa e poi ha preferito aprire un suo foglio, ildogville.it, che spera di trasformare in giornale, dove parla di recitazione a 360°.
Francesca Rita Rombolà ha dialogato con Lucilla Continenza su diversi temi culturali.
D – Il rapporto antropologico di Lucilla Continenza con il Teatro.
R – La mia curiosità per il teatro(in generale per la recitazione)nasce prima di quella per l’antropologia. Quando ho cominciato a recensire spettacoli teatrali e a seguire il cinema per semplice passione, si sono mosse di pari passo. La curiosità per il teatro, ma direi per la recitazione in generale, l’ho sempre avuta grazie alla televisione degli anni ’70: gli sceneggiati dei grandi classici della letteratura, il teatro di Eduardo che veniva proposto in televisione, la rivista di Macario e ancora prima mi incuriosiva il personaggio di Gastone di Petrolini come i film di Chaplin(malinconico Charlot)e quelli di De Sica soprattutto il neorealismo di “Ladri di biciclette”.Ricordo che chiesi a mia madre di cucinarmi una mozzarella in carrozza(da una scena del film dove è chiara la differenza tra un bambino povero e uno ricco). Il primo spettacolo a cui ho assistito a teatro è stato “La Giara”di Pirandello, con la mia classe alle scuole medie. Rimasi colpita dalla rappresentazione di una stanza povera dove la protagonista puliva in ginocchio ripetutamente una parte del palcoscenico che era un grande quadrato di ceramica. Era un gesto compulsivo e che non capivo. Mi venne spiegato che un pavimento di ceramica rappresentava un segno di benessere di cui avere cura nel concetto narrato da Pirandello. Per tanti anni ho vissuto un pò come il figlio di “Marcovaldo”(capolavoro di Calvino)che credeva che tutti i lampioni fossero tante lune. Questo si lega a ciò che sono e alla passione per l’antropologia e per la recitazione. La recitazione in generale mi è sempre risultata interessante in quanto è in grado di parlare dell’intimità culturale di una società, e quindi anche di identità attraverso la finzione della rappresentazione e in modo piacevole e non accademico. Intimità culturale e identità sono due concetti cardine dell’antropologia culturale che comprendono un pò tutto, anche come si vive un’emozione e come la si esprime. In questo forse sono un pò ortodossa, antropologicamente parlando, ma la riflessione, a questo punto, si farebbe molto complessa. Ritornando alla relazione antropologia e teatro, credo che il palcoscenico possa essere considerato la prima forma di media e che sia nato con l’uomo. La nostra cultura occidentale lo fa risalire a quello greco(la tragedia)ma, di fatto, forme di rappresentazione della realtà o del mito sono esistite in tutte le culture del mondo: dalla Papua Nuova Guinea agli Inuit dell’Alaska etc. Nel teatro, a differenza di altre espressioni mediatiche o artistiche o entrambe le cose, è fondamentale il compiersi di un’azione(radice di recitazione)che non può prescindere dalla presenza fisica del pubblico. La relazione tra rappresentazione, messaggio e pubblico mi affascina molto perché tutto si svolge e si consuma nel corso dello spettacolo. Lo studio delle scienze sociali, di cui l’antropologia fa parte, ha sicuramente condizionato, se non addirittura forgiato, il mio rapporto con il teatro, ma, ripeto, con la recitazione in generale di cui mi interessa da un lato la capacità di portare in scena la realtà in cui viviamo(fatta anche di fantasia, che è comunque spirito del nostro essere dentro una cultura), al contempo la comunicazione di un messaggio, che non è necessariamente legato a una morale. Infine, trovo importante che questo messaggio possa influenzare la cultura(in senso antropologico). Il recitare non è per me, quindi, solo un esercizio teso a provocare un’emozione, che crea un godimento momentaneo, ma è una responsabilità per gli addetti ai lavori/artisti nel momento stesso in cui diventa “media”.
D – Il tuo modo di scrivere, di recensire.
R – Alla recensione sono arrivata dopo essermi occupata per anni di politica locale per un giornale cartaceo della mia città, che è Sesto San Giovanni(MI). Il mio modo di scrivere è stato sicuramente influenzato dall’esperienza di un contesto di sinistra, che ritengo ancora molto serio e professionale. Al tempo il mio direttore era Giorgio Oldrini, un grande giornalista che ha sempre gestito il giornale con grande meticolosità e conoscendo alla perfezione la tecnica e il mestiere nelle tante sfumature che si imparano scrivendo. Mi ritengo fortunata, anche perché la redazione era composta da ragazzi, appassionati e motivati, molto in gamba. La tecnica l’ho, quindi, imparata a “bottega” e senza i mezzi che ci sono oggi(internet e la velocità del contatto con le fonti). Alla recensione sono passata quando mi sono sentita pronta. Prima mi era stato proposto, ma avevo bisogno di fondamenta più solide; quindi preferivo dedicarmi ad argomenti meno analitici e sfumati. Il mio modo di recensire è il semplice prodotto di tutto il mio percorso e che ha anche a che fare principalmente con il messaggio, più che con la capacità dell’artista, che poi sono sempre condizionate dal ruolo e dalla drammaturgia o sceneggiatura. Prima di assistere ad uno spettacolo o a una proiezione cinamatografica evito di leggere le recensioni ma parto dalle note di regia e dalla trama, quindi mi focalizzo sul messaggio che si vuole comunicare, cosa che solitamente è spiegata nei comunicati stampa. Durante lo spettacolo o la proiezione valuto come il messaggio è stato analizzato, con quali strumenti(recitazione, caratterizzazione dei personaggi, scena, luci, musica)e come è arrivato al pubblico, suscitando un’emozione che parte dal saper muovere delle corde profonde. La reazione del pubblico è fondamentale, e ascolto anche i commenti. Cerco anch’io di essere pubblico e parte della magia che si crea. Segue poi la stesura della recensione che è ovviamente imprescindibile dal mio vissuto, anche se cerco di essere il più oggettiva possibile. Gli spettacoli troppo autoreferenziali spesso arrivano solo agli addetti ai lavori e non sfondano la cosìddetta “IV parte”, ma lo stesso discorso autoreferenziale vale per il cinema dove il lavoro che è a monte non è modificabile. Le rappresentazioni/proiezioni che ritengo più riuscite sono quelle dove la drammaturgia/ sceneggiatura è sempre comprensibile e credibile, comunicando un messaggio e suscitando l’emozione:la prosa, il teatro civile, la satira e un certo tipo di cabaret per il teatro, mentre il dramma e i docufilm sono i generi che preferisco recensire perché si avvicinano di più al mio modo di essere mediatore. Mi interessa anche la rappresentazione fine a se stessa, che è un termometro del gusto e dell’esperienza di chi propone una forma di arte come è la recitazione. Da qui nasce la mia curiosità anche per le avanguardie che non cadano troppo nella nicchia e quindi nell’incomunicabilità della autoreferenzialità.
D – Vuoi spiegare, in sintesi, che cos’è il tuo foglio, o blog, il dogville.it?
R – E’ la somma delle mie passioni, del mio percorso di studi e di quello giornalistico. Un sito web che spero di trasformare in giornale registrato. Nasce dall’idea di parlare di recitazione partendo sempre dall’analisi del messaggio. Non è un foglio per addetti ai lavori che si sofferma troppo sulle tecniche e sull’estetica, non è il mio ruolo. La scelta del linguaggio del foglio è divulgativa(diretta e semplice)come vuole il mio carattere automatico che è Yoast Seo e non più un correttore di bozze umano. E’ un metodo di scrittura per il web che inizialmente non amavo ma che, col tempo, ho imparato ad apprezzare. Nasce anche da quindici anni di scrittura in giornali web registrati, vista la crisi della carta stampata. Il titolo del foglio non è scelto a caso, ma riassume la mia linea editoriale. Prende spunto da Dogville famosissimo film di Lars Von Trier. E’ un’opera che amo molto per l’analisi delle debolezze della nostra contemporaneità, e perché è cinema girato in un teatro che affronta dinamiche(rappresentate, ovviamente all’eccesso)che potrebbero verificarsi in un qualsiasi condominio di un paese “occidentale”. Sotto il titolo ho inserito una citazione di Oskar Wilde che si rifà alla richiesta di realismo e alla recitazione, che vuole essere il “taglio”. Per recitazione a 360° intendo poi il comune denominatore di teatro, cinema e arti visive in generale. Ritengo l’addetto ai lavori/artista una figura professionale completa che possa passare dal teatro più impegnato allo spot pubblicitario di un panino. Al foglio collabora una redazione di appassionati(giornalisti, studiosi, attori)per ora volontari. Ringrazio tutti, in particolare Judith Maffeis Sala, Marco Albè e Marco Iannacone/Scarlet Lovejoy che sono bravi e importanti sostenitori del progetto, motivati da sincera passione.
D – L’Arte educa l’uomo a dei valori positivi, lo strappa alla barbarie?
r – Dovrebbe essere la sua missione principale, anche se l’Arte è spesso stata al servizio del potere, comunicando i messaggi egemonici. Cito quindi Gramsci che, prima di essere un politico e “marxista critico”, ha lavorato come critico teatrale recensendo spesso Pirandello. Ho una mia personale idea di arte intesa come linguaggio in cui coesistono tre componenti fondamentali: la capacità di suscitare emozione, di comunicare un messaggio e la percezione che ci sia dietro un lavoro(studio e mestiere). Per quanto riguarda la recitazione tutto ciò che è rimasto del passato remoto della società occidentale è opera di menti che si sono distinte per aver analizzato dinamiche che, nonostante la loro intimità culturale, restano ancora attuali.Lo trovo molto affascinante, come se, nonostante la cultura, resti nell’uomo qualche costante primordiale universale. Penso solo a Sofocle, a Shakespeare, a Brecth, a Pirandello le cui analisi raffinate ritornano spesso nelle rappresentazioni contemporanee. L’Arte strappa l’uomo alla barbarie nel momento in cui porta a riflettere sulla costante quasi istintiva di eterna coesistenza tra sfruttati e sfruttatori. E’ una visione forse pessimista, ma è mia opinione che se l’uomo non ha cultura di riferimento(insieme di valori condivisi che “antropologicamente” variano da popolo a popolo)rischia di ritornare sempre allo stato di natura(nell’accezione più negativa del termine). In questo gli animali sono migliori perché hanno quasi tutto scritto nell’istinto, anche le regole di convivenza. All’uomo serve, invece, una guida, e questa è la sua cultura che io immagino come una forza che porta l’uomo ad avere soluzioni condivise di convenienza per evitare un ritorno alla barbarie(lo scambio del dono in alcune società altre è esemplificativo). La condizione di sfruttati e sfruttatori è però permanente sotto altre forme. L’ultima opera di Ken Loach “Sorry, I missed you”, lo mostra bene. Attraverso la settima arte Loach fa un efficace lavoro di denuncia e di sensibilizzazione. Questo spinge a indirizzare verso modelli di riferimenti più solidali e ad evidenziare un malessere sociale e generale proprio del mondo globalizzato.
D – La Poesia e i poeti per Lucilla Continenza.
R – Credo che la Poesia stia all’arte come l’Arte alla poesia nel momento in cui va a toccare corde talmente intime da suscitare una forte emozione! Il poeta deve avere una grande capacità nel decifrare ed evocare stati d’animo che si conoscono profondamente. Forse è un’attitudine, e nel giornalismo c’è poco di poetico. Nell’Arte tutto è poesia, anche in quella più cruda come i quadri di Bacon, per intenderci, nel momento in cui suscita un’emozione e una riflessione che non siano poi troppo razionalizzate. Pura poesia, pensando a uno spettacolo di cabaret di Emilio Soffrizzi(Il crudo e il cotto)che prende ispirazione da “Il crudo e il cotto” di Lévi Strauss, può anche essere il profumo di un ragù che non vedi l’ora di mangiare e che smuove tantissime emozioni! Se parliamo di poesia come scrittura poetica, amo molto i sonetti di Shakespeare, le poesie di Nazim Hikmet, di Bukoski che apprezzo nella cruda schiettezza. In generale trovo molto poetico “Il mestiere di vivere”di Pavese(il suo diario)dove il tentativo di razionalizzare il sentire esplode, però, sotto le parole, fino al drammatico epilogo. Per quanto riguarda il cinema, secondo me, un capolavoro assoluto di poesia è “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Credo sia un mix perfetto: dalla fotografia ai primi piani dei personaggi per catturare le emozioni, dalla sceneggiatura alle musiche di Ennio Morricone che, già da sole, sono pura emozione.
Francesca Rita Rombolà
Lucilla Continenza
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