La letteratura in sé metafora che insegna e guida

21 Marzo 2020

Giorni di tristezza, di lutto, di incertezza e di velata speranza. Ma oggi è pur sempre il primo giorno di primavera dedicato nel mondo intero alla poesia.

E la Poesia non ha mai mancato, nelle varie epoche storiche, di cantare, di mostrare, di testimoniare, di far riflettere e di descrivere grandi pandemie che hanno sconvolto popoli, nazioni, regni, civiltà. A cominciare dal poeta romano Tito Lucrezio Caro che nel poema “De rerum natura”, soprattutto nell’ultimo libro, ha lasciato ai posteri un affresco terribile quanto struggente ed elevato della peste di Atene secoli prima dell’era cristiana.

E poi Giovanni Boccaccio nel suo “Decamerone” rammemorazione letteraria in tempi (medioevali) sconvolti da pestilenza universale, esempio primo per le generazioni future di poeti e letterati che si sarebbero cimentati con ecatombi umane provocate da nemici invisibili tuttavia potenti e difficili da sconfiggere. E ancora Alessandro Manzoni che nel suo capolavoro “I promessi sposi” si sofferma molto sulla peste che sconvolse Milano e la Lombardia nel diciasettesimo secolo.

Come non ricordare, a tal proposito, soprattutto dai tempi del liceo (parlo della mia generazione, primi anni ’80 del Novecento, e forse anche della generazione successiva. Di quella odierna non lo so più) la visione di alta poeticità, che l’acuto genio del poeta sa trasmettere al lettore, della diffusione della peste a Milano con l’assalto ai forni dove si produce l’alimento base del ricco come del povero ma, in primis, del povero perché la gente ha fame: non ha più il pane quotidiano; o il pathos intenso quanto sublime, suscitatore di emozioni contrastanti, ma pur sempre umanissime e toccanti, dell’episodio della “madre di Cecilia” la quale da l’ultimo addio alla figlioletta, falciata dalla peste (colta dal poeta nell’attimo solenne in cui la adagia sul carro dei monatti, sul portone di casa, che la porterà via per sempre) con una dignità composta e calma contrappeso solenne al muto dolore e allo strazio silenzioso che la avvolgono tutta.

O anche il “Diario dell’anno della peste” di Daniel Dafoe che descrive l’epidemia di peste bubbonica a Londra nel 1665 narrata in prima persona dal protagonista il quale registra in un diario gli avvenimenti al riguardo. L’autore più vicino a noi, cioè che in tempi moderni ha scritto un’opera in cui parla di un virus o un microbo che contagia tutti e porta alla morte centinaia o anche migliaia di persone è Albert Camus ne “La peste”. Di questa sua opera lo stesso autore, Albert Camus, dirà a Roland Barthes, nel corso di una conversazione, che la metaforicità (e sottolineo metaforicità) del libro è “profonda”. L’epidemia che si abbatte sulla città di Orano, soddisfatta e tronfia di se stessa, può essere identificata con qualunque minaccia (sottile, invisibile o all’apparenza inesistente) nella quale l’essere umano è costretto a realizzarsi fino in fondo. Il motivo dell’epidemia di peste o d’altro, causata da virus o microbo appunto, bisogna riconoscere che è veramente uno dei miti archetipici che di continuo si ripetono nella letteratura. E’ forse, in realtà, una sorta di schema senza fondo che ogni epoca della storia riempie, completa e vive a suo modo.

Ed è, più propriamente e sottilmente, la letteratura in sé che insegna e guida. “La peste” di Albert Camus si presenta allora di un’attualità lampante quanto allucinante. Vi sono tutt’ora, non sconfitte completamente dalla scienza e dal progresso che essa continuamente realizza, le forze incontrollabili del caos e del male che in modo costante si rivolgono contro l’uomo, talvolta da lui stesso provocate, talaltra no. E’ possibile, dunque, adottare il virus inevitabile nel meccanismo della vita quotidiana. Così si comporta quasi tutta la città di Orano. E si vive, si continua a vivere, a lottare contro un nemico forte perché davvero invisibile, imprevedibile quanto mutevole e con una liquida adattabilità. Le viuzze e i viali, le piazze semi deserte, i caffè, gli alberghi, i tram tutti semi vuoti o vuoti danno alla città un aspetto quasi tetro e severo, un baluginìo latente che ammanta di surreale ogni essere o cosa. Col passare dei giorni e delle settimane la gente si è ormai abituata, o piuttosto assuefatta, al virus; e vi convive, malgrado la paura del contagio sia sempre grande, tanto da diventare una realtà normale, del tutto normale (l’adattamento è naturale e di una piattezza disarmante) e nonostante il numero dei morti per il morbo scandisca le giornate assolate, noiose o stranamente indifferenti. I paesaggi spettrali e vuoti di un’assenza umana inaudita della morta non – morta Orano (nel senso di essere popolata da non morti, simili ai moderni zombie di tante fortunate pellicole cinematografiche) ricordano magnificamente la pittura di De Chirico e forse di Buffet: in un clima di morte, di inferno, di vago sentire e apparire, di pregnante ambiguità si agitano maschere, solo maschere attonite.Salta palese alla mente riflessiva e alla sensibilità umanamente vera l’elevato livello letterario de “La peste” poiché, da tale riflessività e sensibilità, non può sfuggire tutto il senso drammatico e perenne della poesia velatamente contenuta nell’opera: l’occhio vede, a un tempo, la moderna Orano e la città – mondo senza tempo.

Il giorno del Canto

Silente l’angelo scese

con le sue ali oscure

per coprire e ricoprire

il muto lamento dei morti,

ma oggi è primavera

il giorno del Canto

che lenisce ogni pianto

urlato o silenzioso.

Nessuno si è accorto

che sui rami dei nudi alberi

le tenere e fragili gemme

si sono quasi schiuse.

Francesca Rita Rombolà

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