Sergej Aleksandrovic Esenin (1895 – 1925) fu uno degli spiriti più rappresentativi della cultura russa del Novecento. Figlio dei campi, innamorato di un paese idilliaco e contadino, vivo più nella sua immaginazione e nei suoi abbandoni di poeta che non nella realtà delle cose, sperò che la Rivoluzione d’Ottobre segnasse, non solo per la Russa, ma per il mondo intero, l’avvento di una realtà fatta a misura d’uomo liberato dalla civiltà delle macchine, dalla frenetica corsa al guadagno ad ogni costo, dalle costrizioni spersonalizzanti delle grandi metropoli. La sua lucida chiaroveggenza, in fondo, non fu né ascoltata né tanto meno compresa. Sì, non fu così, e il poeta, avvertendo l’illusorietà dei suoi sogni e della sua utopia, si abbandonò a una vita sregolata e inquieta, quasi in una inconscia quanto dolorosa ricerca di autodistruzione che lo portò a suicidarsi in un albergo di Leningrado/San Pietroburgo. Nella sua produzione poetica, pertanto, i temi predominanti ispirati dalla campagna trovano un’ espressione dolce a straziante a un tempo, nostalgica e dolente, segnata dai morsi tremendi del disinganno e dai sussulti di una vana rivolta contro una società nella quale crollano, ad uno ad uno, i desideri e le realizzazioni impossibili di una vita inserita nelle più pure tradizioni di libertà e di elevazione spirituale.
Questa situazione psicologica di ribellione e di oblio sentimentale, di rifiuto della realtà e di inquieta percezione di un destino di morte emerge in modo netto e quasi rigoroso in una toccante poesia che Sergej Esenin ha dedicato al suo paese: un paese che sembra non avere più nulla da promettere, se lo si guarda con “occhi aperti” rinunciando agli inganni delle illusioni e alle seduzioni delle speranze più vane. E anche se, in seguito, egli muterà la sua straziante visione pessimistica in uno sfondo almeno più dolce e più rasserenante, nella poesia “O tu paese, paese mio” tutto ciò assurge quasi a simbolo, nemmeno poi tanto latente, di una metaforica condizione umana, sociale, perfino ideologica senza età e al di fuori del tempo. Ecco “O tu paese, paese mio” di Sergej Aleksandrovic Esenin.
O tu paese, paese mio
O tu paese, paese mio.
Plumbeo, di pioggia d’autunno.
Nella nera pozzanghera il fanale intirizzito
rispecchia un volto senza labbra.
No, è meglio che io non stia a guardare
per non vedere qualcosa di peggio.
Queste cose arruginite e morte
guarderò con gli occhi socchiusi.
Ecco, così è più caldo, e duole meno …
Guarda, fra gli scheletri delle case
il campanile come un mugnaio
porta i sacchi di rame delle campane.
Se hai fame, ti sazierai.
E se sei infelice, sarai sereno e allegro.
Basta che tu non guardi con gli occhi troppo aperti
o mio ignoto fratello terreno.
Così ho pensato, così ho fatto.
Ma ahimé, è sempre la stessa cosa.
Si vede che il corpo si è già troppo abituato
a sentire questo gelido tremore.
Bene, che importa? C’è tanta altra gente,
non sono soltanto io vivo in questo mondo.
Ma il fanale ora ammicca ora sghignazza
con la sua testa slabbrata.
Solo il cuore sotto la camicia consumata
sussurra a me che sono vissuto sulla terra:
– Amico, amico, gli occhi chiaroveggenti
li chiuderà solamente la morte. –
Francesca Rita Rombolà
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