La culla del Decadentismo fu nei cenacoli “Bohémiens” della Rive Gauche – gli “Hidropathes”, gli “Hirsutes”, gli “Zutistes”, i “Nous Autres”, il “Chat Noir” – la cui fama verso il 1880 e ancora più in là negli anni, in tutta Europa e al di là degli oceani, sembrò creare intorno al nome di Parigi un alone suggestivo e quasi inquietante di genialità e di poesia. Il termine “decadenti” fu adoperato dapprima in senso dispregiativo dalla critica benpensante, borghese o accademica, ma già dalla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, quando l’inglese Gibbon aveva descritto la “storia della decadenza e della caduta dell’impero romano” con una certa simpatia per i vinti – “rappresentanti di tutti i valori della cultura” – e i vincitori – “uomini della barbarie” – la parola “decadenza” aveva perso molto del suo significato originario svalutativo, e l’attrazione verso le “culture tarde e morenti” aveva costituito anzi una sorta di distinzione al di sopra di una società e di un mondo alle soglie di un’oscuro sfacelo imminente.
Per primo fu il poeta francese Charles Baudelaire che scoprì e svelò la potenza trasfigurativa che la Poesia possiede anche di fronte a ciò che la vita può avere di impuro, brutto, malato, equivoco, perverso. Per quanto possa accadergli di “trascinare pesantemente le ali” nel fango della terra, il poeta resta sempre il “prince des nuées” che trae il suo respiro da un “ciel supérier … par delà le soleil, par delà les éthers”. Il privilegio del poeta non fu più di essere o sentirsi superiore alle angustie della vita, alla “tristezza della carne”, all’amarezza che si cela nel fondo di ogni voluttà, non fu più il crearsi un proprio mondo sopra un piano più alto dove tutto ciò è lontano come in un sogno: la realtà rimane quella che è, e il poeta vi scende fino al fondo come tutti gli altri esseri umani, assaporandone il veleno fino all’ultima goccia. Il suo privilegio è ora poter fare tutto ciò e uscirne con le proprie forze creative intatte, di poter fare tutto ciò e liberarsene – per le potenzialità misteriose della poesia – in visioni di elevata e imperturbata bellezza, in purezza di canto.
Nel poeta si determina così una sensibilità nuova: complessa e raffinata, attratta in modo irresistibile da tutto ciò che è eccitante e oscuro, non ancora dominato dalla coscienza perciò orgiastico e abissale. Poiché si sentì creatura “di elezione e di maledizione” il poeta non si accontentò dei sogni che passano sull’anima lievi come una carezza, né delle sensazioni preziose e rare e delle delizie squisite del godimento estatico ma cercò anche in altre zone precluse agli esseri umani comuni la sua, in un certo senso, elezione sublime e cioè nelle zone “della vita maledetta”.
Voluttà complicate e tormentate, ebbrezze morbose, confusione e pervertimento dei sensi, esperienze occulte, paradisi artificiali tutto confluì nella cerchia della nuova sensibilità: “la carne, la morte e il diavolo” e tante altre cose ancora che forse neanche William Shakespeare immaginò del tutto quando alluse “alle tante cose sospese fra la terra e il cielo di cui nemmeno si sognano le nostre filosofie”. Di sicuro inquietante metafora di una vaga epoca post – post moderna ancora molto e molto di là da venire e che soltanto il poeta riusciva a intravedere, seppur fra le nebbie e i fumi della sua dolorosa ed estatica discesa misterica nell’Ade immaginifico e reale a un tempo. Allora “l’aria si incendia in splendori quasi irreali di luci e di tinte quando il giorno tramonta” … e, insieme al giorno, tramonta anche una società, una civiltà, un mondo.
Francesca Rita Rombolà
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