Mettere il teatro per iscritto non è poi tanto semplice. Lo ha fatto Luigi Pirandello, lo ha fatto Samuele Beckett, lo ha fatto Gustav Strindberg ecc. ecc, drammaturghi e commediografi che hanno dato, in un certo qual senso, “letterarietà” alla parola e alla veste più elegante e più difficoltosa che è la recitazione.
Si può dire che il teatro è la forma d’arte più elevata? Forse. O forse no. Ma è di sicuro la più singolare. Nel leggere il volume “DIGNITA’ Mono – luoghi per attori, spettatori e lettori attivi” di Luciano Melchionna, edito da ChiPiùNeArt Edizioni (quinta ristampa, maggio 2023), ho percepito e vissuto – forse in qualche profondità davvero remota e piuttosto oscura – nella mia psiche un qualcosa di indicibile e di spiazzante, talvolta perfino di scioccante. Non è il classico “pugno nello stomaco” che ti lascia intontito, sembra essere di più perché sconvolge, si impone e fa riflettere ma soprattutto pone interrogativi ai quali bisogna rispondere con urgenza. E’ un libro sì, in cui le piéces teatrali si avvicendano e si rincorrono, incalzano anche il lettore; brevi, veloci, taglienti che lacerano la carne e lo spirito (la pelle ha dei brividi nel leggerli).
I riflettori dell’arte di Luciano Melchionna sono tutti puntati sul mondo post – moderno, società e realtà di questi primi decenni del ventunesimo secolo, una civiltà occidentale tecnologicamente avanzatissima certo ma i cui valori millenari si sciolgono come neve al sole sotto gli occhi di tutti e il cui vuoto spirituale, umano, artistico anche non è rimpiazzato da una qualche pienezza e da una qualunque promessa di felicità. Normale, si direbbe. Il teatro è questo: è questo da sempre. Sicuro. Questi personaggi (e sottolineo questi) cercano, vogliono, ri – vogliono dignità, perché se è vero che il teatro è catarsi, cioè purificazione attraverso la sofferenza, il dolore, la lotta, riscatto per sé stessi e per l’ambiente che li ha prodotti, livellati, consumati allora è anche pur vero che il mondo odierno ha perso la propria dignità: il mondo fatto di consuetudini, di tradizioni, di problemi, di pregiudizi, di vita (giusta o sbagliata, bella o brutta), di morte (accettata o meno, violenta o lieve, incredibile o naturale).
Forte e immediata è la scrittura in Luciano Melchionna, problematico e limpido il linguaggio, nascosto ma impellente il grido d’aiuto dell’essere umano smarrito e travolto dai cambiamenti epocali in corso; difficile che lo spettatore in teatro non lo senta o almeno non lo avverta come una specie di risonanza nel petto o un sassolino nella scarpa che da fastidio quando si riprende a camminare all’uscita dal teatro, insieme alla consapevolezza, o alla scoperta, che l’eterna lotta fra il Bene e il Male non è finita, continua ancora, e che il Male sembra prevalere sul Bene spesso facendo un sol boccone dell’innocenza.
A questo punto mi chiedo se l’Arte sia morta definitivamente per la specie umana che abita e trasforma questo meraviglioso pianeta, oppure se dopo che è calato il sipario, l’eco degli applausi si è spenta insieme alle luci e il silenzio è subentrato sul palco e sugli spalti l’attore e lo spettatore a un tempo hanno saputo trattenere, malgrado tutto, sulla propria maschera il segno, o la traccia, di una innata primordiale speranza.
Francesca Rita Rombolà
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