Lo spessore morale, la tensione lirica, la forza evocativa della parola poetica di Mario Luzi (1914 – 2005) trovano in questa poesia, “Nel mese di giugno”, un’evidente esemplificazione: si osservi, infatti, con quale efficacia espressiva il poeta riesca, prima, ad offrire al lettore un panorama, non esteriore, ma tutto interiore, della città che, dopo la breve notte di inizio solstizio estivo, si ridesta alla luce frecciante (termine decisamente poetico) di giugno e resta come in attesa, e poi fa sentire “l’urgenza”, la necessità quasi, la realtà piuttosto tangibile di Dio; allora la nostra solitudine, le prime luci che colpiscono come frecce la calma del crepuscolo nell’ora che separa il lavoro giornaliero dal riposo notturno, l’istante del tempo infinitesimale che ancora non permette il riposo e il corpo stanco deve raccogliere le ultime energie, quando la rondine festosa non garrisce più ed ancora l’assiolo non ha iniziato il suo canto notturno, in questa pausa – dunque – tra i suoni del movimento, della vita, e il loro permanere solo come eco e ricordo (sopravvivenza) la presenza del Divino si manifesta quieta eppure forte venendo incontro “in veste di randagio/d’infermo/di bambino tribolato”, che quotidianamente ripete: “la virtù quando non giunge/fino all’amore è cosa vana”. E’ Dio che dona la giusta misura al dolore e alla sofferenza: di fronte ad essi non c’è da avvilirsi né da insuperbirsi. Nel mese di giugno, culmine di fertilità della terra e di splendore solare, anche per l’uomo solo, per il vagabondo, per il senza tetto, per il povero e lo straniero, per il deriso e il disprezzato che nella notte, mentre “la lucciola lampeggia, il cane abbaia”, “strascica i suoi cenci”, vi è speranza di sollievo, vi è certezza di un amore che non viene meno, che non tradisce: l’amore di Colui che spezza “la servitù e l’orgoglio – dicono – della sofferenza”, di Colui che “accosta il solitario”, gli si fa vicino, prossimo, per confortare e per ridare dignità umana, come un giorno, lontanissimo eppure impresso per sempre nell’Eternità, accostò gli smarriti, addolorati e sconfortati discepoli di Emmaus.
NEL MESE DI GIUGNO
Nel mese di giugno
la città quando, sospesa
e alta sopra il nostro sperdimento,
si desta alla frecciata delle luci
all’ora incerta tra veglia e sonno
che il corpo inciampa nel suo peso
ma si rialza sulla sua fatica
nella pausa del tempo tra la rondine e l’assiolo
tra la vita e la sua sopravvivenza.
Tu che spezzi la servitù e l’orgoglio
-dicono-della sofferenza, vieni
se già non sei dovunque
in veste di randagio,
d’infermo, di bambino tribolato.
Segui il timido, accosta il solitario,
ripeti: la virtù quando non giunge
fino all’amore è cosa vana.
E’ quell’ora della metà dell’anno
che il senza tetto strascica i suoi cenci
sull’erba pasticciata, cerca asilo,
la lucciola lampeggia, il cane abbaia.
Francesca Rita Rombolà
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