Quinto Orazio Flacco (Venosa 65 a. C. – Roma 8 a. C.) è il poeta latino formulatore del famoso concetto “carpe diem / cogli l’attimo”, ma forse è meno conosciuto per un altro concetto più profondo e, diciamo, meno “solare”, cioè il senso del “niger”. Il termine latino niger può essere tradotto con nero, oscuro, notturno; in Orazio assume un significato piuttosto originale e complesso. Egli era, come tutti gli scrittori latini, introspettivo. Dalle sue opere non si ricava solo il suo ritratto fisico – un uomo del sud Italia (un meridionale, diremmo oggi) basso, corpulento, cisposo, scuro di pelle e precocemente ingrigito – ma anche, e soprattutto, quello psichico dominato da due tratti: irritabilità e irrequietezza. “Non sai stare un’ora con te stesso, ma fuggi da te cercando di eludere l’ansia col vino o col sonno: invano, ché essa, nera compagna, ti sta sempre alle costole”, si fa dire, dal servo Davo, promosso, per l’occasione, a voce della sua coscienza. Questa “nera compagna” ha una certa predilezione inconscia nel poeta, e il termine niger vi compare spesso nella sua intera produzione letteraria: per sottolinearne alquanto il senso profondo e quasi celato alla coscienza. Perché questa predilezione? Perché forse, come ha anche affermato qualche studioso della sua opera, niger è, in senso figurato, il colore della morte. “Il tuo cuore è sgombro dalla paura della morte (mortis formidine) e dall’ira?” chiederà il poeta alla fine della Lettera II del Libro II.
Colui che ha ammonito di “cogliere l’attimo” e di viverlo intensamente non poteva – dunque – non sentire, o meglio, percepire che il tema della morte è inscindibile dal tema del tempo. E’ la morte, infatti, che da all’uomo l’angoscia del tempo, perché è la morte – ultima linea rerum – che toglie al tempo la rassicurante ciclicità della natura per distenderlo nella breve linea della vita umana. Il senso del “niger” nel poeta latino Orazio si viene a configurare così come una piccola macchia persistente nella luminosità della luce, quasi come un tramonto ancora lontano nel seno del culmine del giorno, o come un vibrare sommesso dell’autunno nel cuore allegro e spensierato dell’estate; una sorta forse di malinconia autunnale, per usare ancora un concetto figurato, autunno non solo dell’anno ma della vita … l’estate che declina e si placa nell’autunno … dell’età appena matura quando l’arco della vita si comincia a piegare, che fa passare, di fronte alla sensibilità all’erta, come un’ombra scura, nera, impossibile da non notare. Camminando all’alba, in questo scorcio di fine estate, spesso, nella luminosità di una natura piena e feconda, ho notato alcune foglie gialle dell’albero di acacia che lente cadevano a terra trascinate da un vento caldo e ho fugacemente pensato ad un autunno impossibile ancora a queste latitudini eppur già presente in tali piccoli segni della natura … e un’ombra “nera” , per un’istante appena, si è posata sui fiori rigogliosi, sui frutti pronti a maturare del sorbo, sulle olive che presto saranno nere e daranno il prezioso olio, sui grappoli pieni dell’uva prossima ormai ad essere vendemmiata … allora ho immaginato anche che in albe simili, secoli e secoli fa, nella tarda estate Quinto Orazio Flacco, poeta, avrà guardato gli stessi segni, in un paesaggio quasi uguale (perché endemico e ovunque riconoscibile è, in fondo, la latitudine mediterranea), donando, inconsapevolmente, al mondo e alle ere del futuro, il senso del “niger”nello splendore fuggente dell’attimo.
Di seguito riporto l’ode “Il cigno”, tratta dal Libro II delle Odi di Orazio, per ribadire, una volta ancora, e sempre, la magia del Canto e il compito del poeta al riguardo, unici a dare l’immortalità a tutto quel che sulla terra vive e muore, ha limiti e confini, barriere e muri … che soltanto il poeta, per mezzo del suo canto, è il solo a superare e a trascendere, aereo, enigmatico, quasi evanescente, nobile e superno come lo è il cigno in natura … anche e perfino se, come da tradizione, il cigno canta solamente quando sente vicina la propria morte!
Il cigno
No, non con fragili ali conosciute
andrà il poeta che si trasfigura
nel cielo chiaro, non indugerà
sulla terra, andrà oltre le città
più grande dell’invidia e più lontano.
Mecenate, quello che tu chiami
sangue di padri poveri, vivrà,
e non lo sommergerà l’onda del buio.
– Aspra la pelle sento e il bianco
del cigno e per le mani
tutto un leggero crescendo di piume –
più sicuro di Icaro
vedrò i lidi del Bosforo sonoro
le Sirti e la pianura
degli Iperborei, lungo il mio cantare.
E mi conoscerà il colchidese
e il daco che ora nasconde in cuore
il terrore dei Marsi e i più remoti
Geloni e mi imparerà l’esperto
ibèro e quanti il Rodano disseta.
Non giungano preghiere della morte
e triste pianto sulla tomba vuota.
Ordina che non gridino
e non si disperino. Dimentica
il culto del sepolcro! Non mi giova.
Francesca Rita Rombolà
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