Ancora un libro, uscito da pochissimo, (Fallone Editore, settembre 2024) per Mauro Germani, che si aggiunge alla sua feconda, e prolifica, produzione letteraria. E’ un libro di racconti: “RETICENZE”. Splendida copertina, che sembra essere di per sé tutto un programma da esplorare, in cui l’elemento portante sembra quasi essere un gatto nero facente capolino dai tendaggi di una finestra e che “ricompare” poi nell’aletta della quarta di copertina, in tutta la sua prestanza, seduto su uno sgabello come a voler significare la latente enigmaticità e l’oscura bellezza del contenuto del volume.
Sono tutti racconti brevi che non superano mai le tre pagine, e il libro ha una sua attrattiva particolare anche e soltanto per questo, in quanto in Italia il racconto breve non è mai stato apprezzato per come dovrebbe e non si è mai veramente affermato. Eppure il racconto breve ha un suo fascino davvero intrigante e veicola un messaggio il cui significato, insieme al significante, sono tremendi, capaci di scuotere l’animus, e l’anima, come un terremoto di magnitudine non bassa scuote la terra. Un qualcosa di Kafkiano aleggia, sospeso come una spada di Damocle, su ciascun racconto della raccolta (una raccolta piuttosto “ricca” che consta di ben settanta racconti); la scrittura ha, come sempre nelle opere di Mauro Germani, uno stile impeccabile, netto, cristallino, che si candida a rasentare la perfezione; il mondo e l’uomo sono scandagliati, rivoltati, presentati in tutto quello che l’epoca odierna è, è diventata e, a causa di ciò, sconvolge e travolge senza nemmeno più sbalordire, e dove la capacità di stupirsi, di meravigliarsi, di indignarsi non lascia spazio alla “tarme segreta” che rode inesorabilmente l’inconscio di un io narrante frantumato, lacerato, disinibito … ma in fondo in fondo ancora pur sempre capace di avvertire in sé l’anelito al Divino, l’incomprensibile consapevolezza di un’appartenenza comune al senso di eternità del Cosmo mai veramente distrutta alle soglie del Transumanesimo; ed ecco, ancora, la post – modernità con i suoi pregi e i suoi difetti, il montaliano “male di vivere” percepito dagli artisti occidentali all’inizio del secolo ventesimo e poi via via amplificatosi fino a raggiungere, nei primi decenni attuali del ventunesimo, proporzioni quasi immani.
Da qualche anno a questa parte sembra “come andare di moda” il domandarsi: l’Occidente (l’Europa e le sue propaggini) stanno morendo? Hanno concluso il loro ciclo storico portatore di una civiltà e di valori, sempre e comunque, improntati all’uomo, alla sua dignità, alla sua libertà singola e collettiva? Qualcuno risponde di sì, che cioè l’Occidente è “morto” di già; altri rispondono che si tratta solo di una crisi passeggera, che esso sta vivendo una sorta di “malessere genetico” già sperimentati (e vissuti pienamente) anche in epoche passate e periodicamente riproposti (o riproponentesi) in una specie di “eterno ritorno dell’uguale” molto naturale e per niente preoccupante.
Ma la scrittura, la Poesia, l’Arte in ogni caso – e ad ogni modo – restano … Non smetterò mai di ripetere che dopo una ipotetica “fine del mondo”, al termine di una futura (e perché no?, anche presente) Apocalisse, due sole cose sopravviveranno con l’uomo: l’Arte e la Fede (nel Divino, o in Dio/Soffio/Pneuma, o come lo si voglia chiamare in riferimento alle civiltà e ai popoli, che ha creato l’Universo), e da queste, ancora l’uomo e sempre l’uomo può (o potrà) iniziare a costruire cieli nuovi e una nuova terra.
Francesca Rita Rombolà
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