Auschwitz, 1945 – 2025, per non dimenticare mai ciò che l’uomo può fare all’uomo. Per capire e, allo stesso tempo, non voler capire perché. Per continuare ad essere sempre, nel bene come nel male, umani e riuscire a conservare la propria dignità di esseri viventi sotto il cielo. Per fare memoria di ciò che il passare del tempo e l’incuria degli uomini potrebbe cancellare o rimandare in un oblio senza speranza. Per consentire alla morte di essere vera morte e alla vita di essere vita vera. Per non dimenticare sì, mai niente di quello di più caro, e di più intimo, che ci appartiene comunque.
MEMORIA
Perché ricordare
la mano che ti ha colpito
al volto e ti ha fatto sanguinare?
E l’arma, di ferro, di pietra
di titanio che ti ha tolto
la vita nel fiore degli anni?
E la bomba che ha raso
al suolo la tua casa
e la tua città
mettendo fine ai sogni
di fanciullo e all’innocenza
di bambino esili e forti
sulla terra?
Uno strano nome
ha da quel giorno lontano
di gennaio
il simbolo del male,
luogo e insieme non – luogo
in cui milioni e milioni
persero la gioia e il dolore
di essere umani fra umani
e altri di dirsi umani
nell’umano andare per il mondo.
Otto i decenni trascorsi
proprio oggi
quando occhi in carne e in spirito
videro gli orrori perpetrati,
la miseria, la morte senza morte.
La libertà è il segno
più recondito e reale
dell’umano genere,
essere liberati
da qualcosa e da qualcuno
è sempre un ritorno alla vita
dalle propaggini del sepolcro.
La memoria, il ricordo
non devono mai disperdersi
come pula di frumento
nel vento.
Se io non ricordassi più
i miei cari portati via
dall’ultimo fatale trapasso,
se io non facessi più memoria
del loro essere stati qui:
a camminare, a parlare
a ridere o a piangere con me
sarebbero vuoti i giorni
e dure di un letale sonno
le notti.
Il tempo, ahimè, è una freccia
che scorre solo in avanti
sotto il sole,
gli attimi soltanto
li porti e li porterai
con te nel palmo
della mano.
Francesca Rita Rombolà
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