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Rossella Pretto si è laureata in DAMS, presso l’università Roma Tre, in “Istituzioni di regia teatrale”. E’ presente nella raccolta di racconti, curata da Filippo Tuena, “L’ultimo sesso al tempo della peste” (Neo Edizioni, 2020). Nel 2023 esce il suo memoir di viaggio, “La vita incauta” (Editoriale Scientifica, collana S – confini), presentato al Premio Strega e candidato al Premio Severino Cesari. Nel 2024 esce il saggio “Karen Blixen, il coraggio, l’amore, l’ironia” per Edizioni Ares. Con Marco Sonzogni Rossella Pretto ha curato l’edizione e la traduzione di “Memorial” (Archinto Edizioni, 2020), riscrittura dell’Iliade della poetessa inglese Alice Oswald e l’edizione delle traduzioni sofoclee di Seamus Heaney, “Speranza e storia. Le quattro versioni sofoclee” (Il Convivio Editore, 2022); ha curato anche l’edizione de “La terra desolata” di T. S. Eliot tradotta da Elio Chinol (Interno Poesia Edizioni, 2022). La sua prima raccolta di versi, “Nerotonia”, esce nel 2020 per i tipi di Samuele Editore. E’ presente nelle seguenti antologie poetiche: “Dal sottovuoto – Poesie assetate d’aria” (Samuele Editore, 2020); “Oikos. Poeti per il futuro” (Mimesis, Classici Contro, 2020); “Cinque sensi per un albero” (L’EstroVerso, 2020); “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla rete” (Puntoacapo Editrice, 2021). Ha scritto articoli e recensioni per blog e riviste fra le quali: “Poesia” di Nicola Crocetti, per “Succede Oggi”, “Doppiozero” e narrazioni di viaggio e letterarie per la rivista “Studi Cattolici”, e ha diretto la rivista letteraria “Satisfiction”. Rossella Pretto ha esperienze in campo artistico come attrice teatrale, cinematografica, televisiva e come doppiatrice. Ha preso parte e ha condotto programmi TV; ha adattato dialoghi per serie TV e film.
Francesca Rita Rombolà conversa con Rossella Pretto per poesiaeletteratura.it.
D – Rossella Pretto, perché non iniziamo questa conversazione parlando del tuo ultimo libro, il saggio sulla famosa scrittrice danese, “Karen Blixen, il coraggio, l’amore, l’ironia?”
R – Amo molto Karen Blixen, il coraggio della donna, la raffinatezza della narratrice. Da lei imparo l’amore che è il grande motore della Letteratura, quello che ha spinto il nostro Sommo Poeta a compiere un viaggio periglioso per i tre regni ultraterreni: tutto per amore, amore di una donna, della conoscenza, arrivando a contemplare “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Amore soddisfatto o negato che sia – come fu per Blixen: negato, e zoppo – quella spinta desiderante che cerca e crea. Con lei ho imparato a percorrere le strade dell’ironia, perché Blixen non si è messa di traverso al suo destino esigente, l’ha accettato facendosene cantrice, lo ha assunto su di sé dando compimento alla propria storia. Un patto serissimo – demoniaco, diremmo à la Goethe – per distillare la vita in parola. Conosciamo Karen Blixen soprattutto per “La mia Africa” il film (quest’anno cadono anche i quarant’anni dall’uscita), film che tradisce, si sa, il libro. Quello ha ben altra sostanza, ma il film è comunque un pezzo del nostro immaginario e un modo per incontrare la donna, carne e fuoco di un continente bellissimo e pieno di contraddizioni, invaso e sfruttato dall’uomo bianco che non ne ha capito l’essenza; un modo per accompagnare la ragazza danese che abbandonò la sua terra per correre dietro a un’idea di vita avventurosa e amorosa che però la atterrò crudelmente. Da quel fallimento nacque la scrittura, da quella ferita, dalla malattia che Blixen trattenne nelle vene per non dimenticare, e che moltiplicò i dolori del corpo. Da quel lutto, Karen trasse la polvere magica che le ha permesso di ammaliare generazioni di lettori. Ha indossato tutte le sue maschere dicendo la verità sull’essere umano. Una verità che non è di nessuno eppure è di tutti. Da tempo leggevo e scrivevo di lei, così ho colto l’occasione offerta dalla casa editrice Ares per sbozzarne un profilo che tenga conto dell’opera. Libro che ho poi corredato con un viaggio, o un pellegrinaggio alla sua casa danese sopra Copenhagen, che oggi, per volontà della scrittrice, è una Fondazione culturale, un museo e un’oasi ornitologica. Un luogo di incanti tra il mare e il bosco verdissimo di Folehave.
D – I tuoi interessi artistici spaziano dalla scrittura alla traduzione letteraria, al teatro, alla televisione, al cinema; cosa è per te passione e cosa, invece, professione?
R – Se posso dirlo, concepisco la professione come una modalità, quella più giusta per approcciarsi e dare espressione alla passione. Senza quest’ultima, alla radice non esisterebbero impegno né patto. La professione è la serietà che da importanza alla scelta, vissuta giorno per giorno, anche negli inciampi. Poi, per carità, si gioca a fare molte cose, si prova a rincorrere i fili di un ispirazione multiforme che da vita alla vita, perché non ti passi sopra.
D – Tradurre, da una lingua straniera, un romanzo o una silloge poetica è, secondo te, come, in un certo senso, “appropriarsi” un po’ dell’opera, quasi nelle vesti di un “secondo autore?”
R – Io traduco Poesia. Solo poche cose, sceltissime, per elezione. E’ necessario ascoltare il testo di partenza, farsene amanti e lasciarsi coinvolgere, perché alla fine abbia luogo quel rapporto amoroso, quella corrispondenza di amorosi sensi che crea il risultato finale: la traduzione. Alice Oswald, poetessa inglese di cui mi occupo da qualche anno, generosa e Maestra, mi ha incoraggiato a incontrare tutti i guerrieri, uno per uno, che compaiono nel suo “Memorial”, il grande poema che ha tratto dallo studio inesausto dell’Iliade (Omero è il poeta più moderno, secondo lei). Mi ha spinto a incontrare, ascoltare e trascrivere la voce di ognuno di loro, alla maniera di Beckett: scrittura e riscrittura traducente. Originale. Poi bisogna “annudarsi”, per usare un termine di Wanda Marasco, sperimentare con il proprio corpo, come fa un attore, e perseguire, tallonare la verità trovata – organica, indifferibile, scandalosa, talvolta, indigesta – e dare forma, lavorare con le equivalenze, trovare una lingua capace almeno di alludere a quella verità. Farsi aderenza. Questo per quanto riguarda la scrittura, ma ha molto a che fare anche con la traduzione. Poiché il tramite non è indifferente, né l’osservatore è neutro, lo sappiamo.
D – Come vedi l’Arte, in generale, in questo tempo così strano, confuso, senza confini (o fini) precisi?
R – E’ la possibilità di uscire dalla comfort zone che si installa tra la volontà di primeggiare e di essere riconoscibili e la paura di uscire dal gruppo e non contare più nulla. E’ un paradosso. E i paradossi immobilizzano. L’Arte scardina e ricorda di non smettere la ricerca, l’anelito alla conoscenza, al di là di tutti i diktat e falsi piaceri che l’oggi ci propina e con cui ci oblitera – tutto quello che riguarda il like, like come miele avvelenato che stacca il corpo dall’ombra e fa debordare la mente in un mare sconfinato, privo di appigli, dove la lotta è tra uomo e uomo, non più tra uomo e Natura o tra uomo e bestia (ricordiamo i versi di Lautréamont dove descrive la caccia terribile e sensuale tra uomo e femmina di pescecane mentre il mare è rosso del sangue dei corpi?). Abbiamo dimenticato il corpo, con i suoi bisogni, le scomodità. Corpi fatti non solo di superfici ma di orifizi, di sudori (come ha dimostrato anche quel poeta meraviglioso che è Rupert Brooke, magistralmente e da poco tradotto da Paola Tonussi). Senza quello non riusciamo a concepire la nostra storia, la storia da raccontare, da raccontarci, e senza storia, ça va sans dire, siamo nulla.
D – E la Poesia che posto (o che ruolo) occupa nella tua vita?
R – Nutro grande rispetto per la Poesia (sembra quasi un atto formale, vuoto, ma non lo è in un mondo che non ha rispetto per niente e annulla le distanze e – ammazzando i Maestri). La Poesia è epifania e atto conoscitivo, verticale e vertiginoso. Il suo percorso è spesso oscuro, iniziatico. Cioè, lo è per me la grande Poesia. Non disdegno affatto quella che scorre limpida e tintinna tra le pietre di un prato cantando l’esistenza per quel che è. Ma trovo conturbanti e problematici i versi di chi si fa bruciare le vene e straccia il tulle rosa che agghinda le finestre, e disturba, graffia, non si adagia sul conformismo, fa ricerca – che so, Dylan Thomas, Sylvia Plath – , i versi di chi si dispone a farsi voce antica e veggente, quella che “pre – soffre”, come il Tiresia di T. S. Eliot, una voce antica che si installa nell’oggi (come quella di Giovanni Ibello, per stare ai giovani, sostenuto dal maestro Milo De Angelis, in libreria ora con i suoi versi giovanili). Ci sono tanti giovani poeti bravi (Pietro Cagni, per esempio, Mattia Tarantino, Giorgio Maria Cornelio, ma tanti altri, Alessandra Corbetta). C’è la meravigliosa Elisa Ruotolo, che scarnifica tutto. Ci sono i viaggi di Alessandro Rivali, la ricerca di senso per l’umano e un senso di bene conquistabile. Penso poi alla Poesia che scava nell’indicibile e arriva a tramare i versi di silenzi – Paul Celan. La Poesia scomoda che tesse un legame sfibrante con la morte e si fa interprete della nostra zoppia dolorosa. Stefano Massari, ma anche – poeti così diversi – il Bacchini della raccolta postuma. Leopardi, sì. Emily Dickinson. C’è la Poesia che poi non si tira indietro di fronte alla modernità contraddittoria che ci intrama, sabotante, e la denuncia, si fa civile: è uscito da poco il bel libro di Luca Ariano e Carmine De Falco, “I naufraganti”. Che dire di Mario Santagostini? In quanto a postura penso a Giuseppe Conte, al suo diniego di piegarsi alla giostra delle apparenze e dei salotti. Penso all’impegno di Seamus Heaney. C’è la Poesia colta e irriverente, perché affilata con le armi dell’ironia che accosta e fa cozzare i tempi, i vissuti, aguzzando la partecipazione del lettore; quella di Giovanna Frene, tramite lei si arriva a Zanzotto (o il contrario, certamente il contrario). Non è un discorso sistematico, questo mio, sono le divagazioni di una foglia strattonata dal vento, che vanno prese per quel che sono, suggestioni di letture, magari recenti. Volute di fumo, come quelle che salgono dalla sigaretta spenta di Clizia a dire quanto la Storia che irrompe possa essere trattenuta dagli occhi di acciaio di una scelta di campo, di un ascolto diverso. O forse è un accenno di mia geografia privata, dove ovviamente è rimasto fuori quasi tutto. Leggo la Poesia con moderazione. Perché necessita di un tempo sospeso e, direi, sacro. Che non è: sempre. E’ quando deve, quando ha l’occasione di accadere. A parte questo, di poesia parlo e scrivo, a modo mio, contaminando la vita e il pensiero con i versi dei poeti che scelgo, per la rubrica che curo sulla rivista “L’ottavo”: si chiama Beautiness, che è un termine sghembo, informale rispetto a Beauty, e un po’ assomiglia alle caratteristiche che soddisfano universalmente il senso estetico, ma prese allo stato gassoso.
Francesca Rita Rombolà
Rossella Pretto
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