“(…) La neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del solitario cimitero sulla collina dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima svanì lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti.”
Brano finale de “I Morti”, ultimo racconto di GENTE DI DUBLINO di James Joyce
Nella Dublino dei Dubliners, ossia della prima importante raccolta di racconti GENTE DI DUBLINO dello scrittore James Joyce, soprattutto nella descrizione puntuale e precisa, la soglia che separa i vivi dai morti sfuma e si trasforma in ampie zone d’ombra dove avvengono strani incontri e veglie in notti ancor più strane. Ogni personaggio in GENTE DI DUBLINO svolge la sua stagione della vita sotto il segno di una tradizione insulare. Essi sembrano, a tratti, recitare un ruolo sia attivo che passivo, e sono spesso presenze mute che indossano una maschera per esorcizzare e tenere lontano la vista del proprio volto. Il rispetto delle forme e dei riti offre l’immagine metaforica di uno specchio che proietta gli avvenimenti dell’identico. Il racconto I MORTI, che chiude i Dubliners, si rivela piuttosto emblematico in questo senso. Le sorelle Morkan celebrano il rito della festa annuale del Natale sotto due quadri: la “scena del balcone in GIULIETTA E ROMEO” ed un altro, da loro stesse ricamato, raffigurante “due giovani principi uccisi nella Torre”; mescolanza, a volte chiara a volte confusa, fra i vivi e i morti, la morte e la vita. Eppure, in chiusura dello stesso racconto, lo specchio, per pochi attimi soltanto, fa cadere la maschera del protagonista secondo un modo narrativo tipicamente joyciano, improvviso ed epifanico: “Si vide… quell’essere fatuo e pietoso di cui aveva scorto l’immagine nello specchio”. Ma Gabriel Conroy non sopporta di vivere senza una maschera, e abbandona la luce ritornando nella penombra di sempre. L’atto di coricarsi di Gabriel accanto a Greta, prigioniera dei fantasmi, è quasi una sepoltura simbolica, una specie di regressione nel tempo e nello spazio che si inoltra nel vuoto. Dal ritratto dei morti, allora, a quello dei vivi. All’alone giallastro delle vecchie foto corrisponde la diffusa patina bruna che, dagli edifici di Dublino, si riflette sui volti dei personaggi. Nell’uso semantico dei colori, quello della terra del cimitero e dei mattoni dei quartieri periferici si mischia ad un verde persistente che non è il verde brillante (evergreen) della rigenerazione e della vita, bensì quello della putredine e della morte. L’isola di smeraldo, la verde Irlanda dei miti si trasforma, così, nella palude nera abitata dagli Iberni (il termine o vocabolo DUBLINN, Dublino, in gaelico significa “stagno nero o palude nera”). Alla sua isola, misteriosa e lontana, protesa verso l’ignoto dell’oceano Atlantico; a questa sua isola d’Irlanda, allegoria dei vivi e dei morti, James Joyce dette il nome, risaputo, di “paralisi”, di incapacità di cambiamento e di rinascita, e il colore costituisce uno dei tanti sistemi di segni che denotano il ripercuotersi della morte sulla vita: il verde spento è l’estrema degradazione degli altri colori e il marrone scuro (brown) è il colore – simbolo della stessa Dublino.
Altri segnali indicanti la paralisi e l’immobilità dei Dubliners sono: la frustrazione, l’accidia e la malinconia dei personaggi. Dunque, il rapporto fra morti e vivi è il tema centrale de I MORTI (THE DEAD) dove il turbamento della protagonista femminile è l’intero fulcro della vicenda, turbamento provocato da un personaggio (Michael Furey) che non compare mai perché è morto, è assente. Solo pessimismo e tristezza, incapacità di scuotimento e di vitalità in GENTE DI DUBLINO, in generale, e ne I MORTI, in particolare? Ad una prima lettura, il messaggio di James Joyce sembra essere proprio questo. Infatti, la “paralisi” in GENTE DI DUBLINO diventerà paralisi dell’intera società umana “intrappolata” in una specie di fitta rete di convenzioni borghesi, di cavilli e dogmi religiosi, di valori, di intenti e di piani che non porteranno ad un miglioramento della condizione umana, nel suo insieme, e verso una libertà dell’essere che affranchi dalle catene di condizionamenti politici, tradizionali e pregiudiziali. Ad una lettura più profonda, però, sembra che James Joyce, attento e risoluto osservatore delle cose e degli esseri in evoluzione, lasci spazio alla speranza di annientamento della paralisi, e proprio nella chiusa de I MORTI, per mezzo della “neve che cade lieve su tutto l’universo” quasi a lavare, a purificare, a rinnovare, come in un Giudizio Finale, la città di Dublino, l’Irlanda, il mondo intero(il bianco della neve è il colore della purezza, del candore, dell’innocenza edenica). Dagli ultimi decenni del secolo scorso, l’Irlanda, in genere, e la città di Dublino in special modo, sono diventati meta di turisti, di giovani, di artisti da ogni parte del mondo e di chiunque voglia sentirsi libero di vivere la propria vita e di realizzarsi al meglio in una società che attrae e accoglie. Passeggiare o semplicemente camminare per le vie e per i quartieri di Dublino è come passeggiare o camminare a New York, la città dalle infinite possibilità, calandosi e inebriandosi in un’atmosfera magica eppure meravigliosamente reale quanto intensa e unica al mondo. Possiamo, perciò, concludere dicendo che forse, nelle ultimissime battute de I MORTI, in GENTE DI DUBLINO, James Joyce ha davvero dato agli irlandesi, ai dublinesi e al mondo intero la possibilità di riscattarsi in grande dalla paralisi esistenziale dei tempi moderni.
Nel 1988, uno dei più grandi registi hollywooddiani di tutti i tempi, l’americano di origine irlandese John Huston, gira l’ultimo film di una lunga e felice carriera cinematografica tempestata di successi. In omaggio ai suoi, emigrati dall’Irlanda alla volta degli Stati Uniti d’America, si cimenta, con la macchina da presa, a portare sul grande schermo proprio I MORTI, l’ultimo racconto di GENTE DI DUBLINO di James Joyce, che egli ha sempre considerato un capolavoro letterario. Il film THE DEAD, I MORTI, di John Huston non è certo da meno, come capolavoro, da quello cui è stato ispirato ed è tratto.
Francesca Rita Rombolà
Questo articolo è dedicato a una persona cara all’autrice che a Dublino, in Irlanda, ha trovato la propria realizzazione e ivi vive, in occasione del suo compleanno: oggi, 14 gennaio 2013.
Un commento
…thanks…