“Così dicean tra loro, quando Argo, il cane Che ivi giacea, del paziente Ulisse, La testa ed ambo sollevò le orecchie. Lo nutrì un giorno di sua mano l’eroe, Ma, spinto dal suo fato a Troia, Poco frutto potè. Bensì condurlo Contro le lepri e i cervi e le silvestri Capre solea la gioventù robusta. Negletto allor giacea nel molto letame Di muli e buoi sparso alle porte innanzi, Finchè, i poderi a facondar d’Ulisse, Ne togliessero i servi. Ivi il buon cane, Di turpi zecche pieno, coricato stava. Come egli vide il suo signor più presso, E, benchè tra quei cenci, lo riconobbe, Squassò la coda festeggiando, ed ambe Le orecchie, che drizzate avea da prima, Cader lasciò: ma incontro al suo signore Muovere, siccome un dì, gli fu disdetto. Ulisse, guardatolo, si asciugò Con mano furtiva dalla guancia il pianto, Celandosi da Eumeo, cui disse tosto: Eumeo, quale stupore! Nel letame giace Cotesto, che a me pare cane sì bello. (…)E tu così gli rispondesti, Eumeo: Del mio re lungi morto è questo il cane. Se tale fosse di corpo e di atti, quale Lo lasciò, a Troia veleggiando Ulisse, Sì veloce a vederlo e sì gagliardo, Gran…